Chi non si rassegna al dominio americano

Davanti a quella che parrebbe la fine di questa guerra infame alcune cose si possono dire con sicurezza. Ormai gli Stati uniti teorizzano apertamente che è giusto tutto ciò che è nel loro interesse. Non è una novità assoluta. Negli ultimi anni si sono rifiutati di sottoscrivere il protocollo di Kyoto, la Convenzione di Ottawa sulle mine antiuomo, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il trattato istitutivo della Corte penale internazionale; hanno denunciato i trattati di non-proliferazione nucleare e, dopo il caso Nicaragua, si sono dissociati dalla Corte internazionale di giustizia. Giorni fa, Garcia Marquez ricordava che, da quando esistono, gli Stati uniti hanno operato poco meno che ottanta invasioni a danno di paesi sovrani e ordito e finanziato innumerevoli golpe per insediare governi amici in aree strategiche del mondo. Ma la teoria e la pratica della «guerra preventiva» segnano un salto di qualità. Rivendicando a sé il ruolo di sovrano e di giudice plenipotenziario, Bush si è arrogato il diritto all’uso della forza senza regole né limiti. L’aggressione all’Iraq, le ripetute minacce di espansione del conflitto alla Siria e all’Iran, e ora l’inaudita evocazione della quarta guerra mondiale da parte dell’ex capo della Cia, sono le dirette conseguenze di tale impostazione: ci rifletta la signora Dal Ponte, pensi anche a Guantanamo e spieghi – se può – che cosa osti all’incriminazione di George W. Bush e di Tony Blair per crimini contro l’umanità.

Dinanzi a questo quadro, le divisioni emerse in seno alla sinistra italiana costituiscono un fatto grave quanto significativo. Appena dopo l’inizio del conflitto, le forze dell’opposizione avevano ritrovato la propria unità contro la guerra. Se oggi riemergono contrasti, è perché, fatta salva la censura nei confronti della strategia di Bush, gran parte della dirigenza del centrosinistra non prende le distanze dalla linea blairiana dell’interventismo «democratico» e neocoloniale. Di qui il rifiuto di mettere in discussione le scelte compiute in occasione dei bombardamenti Nato sul Kosovo. Benissimo che oggi D’Alema, Fassino, Veltroni e Rutelli denuncino la tracotanza angloamericana e il servilismo del nostro governo. Ma non è accettabile che essi continuino a difendere la decisione di partecipare, appena quattro anni fa, a una guerra non legittimata dalle Nazioni unite, una guerra che Massimo D’Alema definì nientemeno che «la più bella pagina della storia italiana contemporanea».

Certo, la tentazione di difendere la propria persona è grande, ma si ha l’obbligo di resistervi e di cercare in sé la forza di dire la verità. Che non sta nella foglia di fico della «polizia internazionale», delle bombe «etiche», dell’«intervento umanitario». Ma nella sciagurata decisione di far guerra senza l’Onu e contro l’Onu, e di giustificarla con argomenti molto simili a quelli agitati oggi da Bush e dai suoi vassalli. «L’uso della forza può rivelarsi necessario quando gli strumenti della ragione e della persuasione pacifica si rivelano impotenti» (D’Alema). «Inutile appellarsi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, paralizzato dal sistema dei veti» (Veltroni). Se anche a proposito della guerra la destra dilaga, è perché le si è spianata la strada svendendo conquiste, regalando risorse, stracciando la Costituzione.

Un ragionamento analogo vale, mutatis mutandis, per alcuni intellettuali che si cimentano nell’analisi della realtà contemporanea. Gli ultimi mesi hanno messo in evidenza come la politica di guerra degli Stati uniti non sia rivolta solo contro gli «Stati canaglia» ma anche contro un possibile ruolo autonomo dell’Europa, contro la Russia, l’India e soprattutto la Cina, indicata in tutti i documenti del Pentagono come il nuovo antagonista strategico. Dalla caduta del Muro di Berlino, la politica americana si è mantenuta fedele a un imperativo: spingere al massimo sulla macchina militare (per la quale gli Stati uniti spendono oggi, in percentuale, quanto spendevano al momento del massimo coinvolgimento nella guerra del Vietnam) nella speranza, folle e rischiosissima, di tenere il resto del mondo sotto scacco. Pur di raggiungere questo obiettivo, gli Stati uniti hanno imboccato la via di un imperialismo sempre più aggressivo, dichiarando apertamente di considerare irrinunciabile la «capacità di imporre la propria volontà a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali». In questo contesto, l’apparente unanimità della «coalizione internazionale contro il terrorismo» all’indomani dell’11 settembre avrebbe dovuto convincere solo gli ingenui, se non altro per la logica schmittiana («o con noi o contro di noi») su cui riposava. Invece ci si è attardati in discussioni a dir poco fatue: il G-8 come nuovo «Direttorio mondiale», la «fine degli stati», il «capitalismo globale»…

Per fortuna oggi, di fronte a una rottura drammatica tra gli stati uniti e il resto del mondo, sono in pochi a parlare ancora di Impero e di una presunta unità politica transnazionale contrapposta alla «moltitudine» degli oppressi. Nessuno più ignora l’enorme rilevanza dell’opposizione alla guerra di stati come la Russia, la Cina, la Francia e la Germania, e lo stesso Toni Negri ha fatto marcia indietro, rimproverando Bush di nutrire «ancora» mire imperialistiche. Meglio tardi che mai. Benché tardivamente, si è fatto un grande passo in avanti nel momento in cui si è riconosciuto che non esiste alcun «capitalismo mondiale» senza centro né patria, e che a mettere oggi a repentaglio il mondo è, al contrario, il capitalismo statunitense, anzi anglo-americano, se è vero che alla base dell’alleanza di ferro tra Bush e Blair c’è la stretta integrazione degli interessi industriali e commerciali inglesi e statunitensi nei settori della finanza, del petrolio e della difesa. Anche in questo caso, tuttavia, l’onestà intellettuale imporrebbe uno scrupoloso inventario delle ipotesi rivelatesi infondate, a cominciare dalla pretesa di mettere da parte la nozione di imperialismo e dall’idea dell’esaurimento dei contrasti inter-imperialistici.

Detto questo, si tratta di guardare avanti, di mettere in valore la straordinaria opposizione alla guerra che salda un vastissimo schieramento di stati e di popoli in ogni parte del mondo. Ovunque centinaia di milioni di persone si mobilitano, riempiono strade e piazze, denunciano la barbarie della «guerra preventiva». Un ruolo di primo piano svolge su questo fronte il movimento contro la globalizzazione capitalistica, presso il quale non trovano più udienza i discorsi generici sul «neoliberismo» in cui il G-8 e la Wto erano additati come nemici mortali, senza tener conto dei loro legami con gli Stati uniti e con gli altri paesi capitalistici più forti. Come dimostra la mobilitazione contro le basi Usa e Nato, il movimento ha compreso il ruolo cruciale della guerra nel quadro dell’offensiva politico-militare anglo-americana contro il sud del mondo e le altre potenze globali emergenti.

Se questo è vero, un compito sopra ogni altro attende le forze dell’opposizione alla vigilia della manifestazione nazionale del 12 aprile: far sì che il movimento per la pace cresca quanto più possibile e acquisti continuità. Perché, ammesso che questa guerra finisca qui, un’altra se ne preparerà, fin quando negli Stati uniti il potere resterà nelle mani di una lobby disposta a tutto, pur di conservare i propri privilegi.