«Chi nasce in Italia deve essere cittadino»

La Comunità di Sant’Egidio è una delle associazioni che si è battuta di più per una riforma della legge sulla cittadinanza. Attraverso la campagna «Bambini d’Italia», la Comunità ha denunciato la situazione delle migliaia di minori che pur essendo nati in Italia o essendo arrivati nel nostro paese da piccoli, scontano la condizione di «stranieri» fino a diciotto anni. Per questo, Sant’Egidio si è fatta anche promotrice di una proposta di legge. Daniela Pompili è la responsabile dei Servizi per l’immigrazione.
Quali sono i principali paradossi di questa situazione?
Molti, ne incontriamo giornalmente. Succede ad esempio che un bambino nato in Italia da genitori stranieri con regolare permesso di soggiorno non possa chiedere il riconoscimento della cittadinanza a diciotto anni perché i genitori al momento della nascita non erano «residenti». Il che non significa soltanto avere il permesso di soggiorno, ma essere residenti in un determinato Comune, quindi avere ad esempio un contratto d’affitto regolare, o un padrone di casa che ti permette di eleggere la tua residenza nel suo domicilio. Oppure bambini nati in Italia che per sei mesi sono usciti dal paese perché da piccoli sono stati affidati ai nonni, e dunque non risultano «continuativamente» presenti.
Che succede in questi casi?
Il minore per diventare cittadino deve seguire le regole stabilite per tutti gli altri immigrati. Quindi dimostrare di essere presente da dieci anni regolarmente e continuativamente, ma non solo: deve presentare tre dichiarazioni dei redditi. Questo comporta che a diciotto anni o il ragazzo smette di studiare e va a lavorare, oppure – se continua a studiare – deve ottenere un permesso di soggiorno per studio. che però permette di lavorare solo 20 ore settimanali. Quindi probabilmente non raggiungerà il livello di reddito richiesto. Se a quel punto decide di smettere di studiare per dedicarsi al lavoro potrà convertire il suo permesso, ma solo dentro le quote del decreto flussi. La stessa cosa vale per tutti quei bambini, e sono moltissimi, che non sono nati in Italia ma sono arrivati da piccolissimi. Per questa la nostra proposta di legge chiede di riconoscere, oltre allo ius soli, quello che definiamo ius domicilii: cioè la facilitazione dell’accesso alla cittadinanza a chi ha risieduto regolarmente per sei anni e in Italia ha frequentato almeno un ciclo di studi.
Quali sono le conseguenze su questi bambini?
Vivono una condizione molto difficile: ovviamente si sentono italiani come tutti i loro amici figli di genitori italiani, parlano italiano, hanno le stesse passioni e gli stessi desideri, le stesse aspettative di vita pur essendo legati anche alla cultura di origine dei genitori. Però, contemporaneamente, devono fare i conti con il fatto di essere stranieri. Pensiamo a una classe scolastica che va in gita all’estero: loro devono sempre chiedere il visto, o se i genitori stanno aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno non si possono muovere dall’Italia. Dover continuamente fare i conti con il fatto di essere stranieri, diversi dalla maggioranza, può appesantire il percorso di integrazione o addirittura favorire lo svilupparsi di sentimenti di contrapposizione.
Secondo lei essere cittadini equivale a essere «integrati»?
Non è l’unico livello, ma noi pensiamo sia un livello essenziale. E’ importante che un bambino sia da subito, a tutti gli effetti, cittadino italiano. E poi, insomma, ci sembra un investimento serio per una società che riconosce la realtà dell’immigrazione, che ormai interessa l’Italia da quaranta anni. Di fondo c’è un problema di modernizzazione del paese: siamo già una società multiculturale, ci confrontiamo quotidianamente con lingue, culture e religioni diverse. Pensiamo al numero sempre più crescente di matrimoni misti. Non è una questione che può essere rimandata.