Chi l’ha detto che il mercato crea maggiore efficienza?

Che l’Italia abbia un rapporto debito/pil molto alto, in assoluto oltre che relativamente ad altre economie, è pacifico. Che un “declassamento” di tale debito possa, in teoria, indurre aggiustamenti di portafoglio su scala internazionale è possibile. Che ciò induca un rialzo dei tassi d’interesse interni è invece fortemente discutibile, e infatti ciò non è praticamente avvenuto dopo l’abbassamento del rating sui titoli italiani da parte di due colossi del settore.
Infatti gli aggiustamenti di portafoglio dovrebbero essere quantitativamente elevati per produrre l’effetto in questione; il che vuol dire che, in grande misura, essi dovrebbero avvenire senza alcun costo di transazione (tasse incluse) e senza alcun rischio valutario per movimenti fuori dall’area euro. In secondo luogo, anche in presenza di aggiustamenti significativi, l’effetto sui tassi dipende fortemente dalla cosiddetta “struttura per scadenza” del debito e – grazie ad alcune, oculate politiche del passato – i titoli italiani sono in modo preponderante a lungo termine.

Il “declassamento” non porta quindi alcuna nuova freccia all’arco dei sostenitori della politica dell’abbattimento rapido, massiccio (circa 10 punti percentuali, stando all’impostazione generale seguita dal governo) e costi-quel-che-costi del rapporto debito/pil. E non irrobustisce la loro critica alla linea di politica economica implicita nell’Appello degli economisti per la stabilizzazione di quel rapporto.

Lo ha efficacemente argomentato Emiliano Brancaccio (Liberazione, 24 ottobre), il quale ha posto anche la seguente questione chiave: per quale ragione escludiamo che politiche economiche restrittive, quali quelle dei tagli indiscriminati o automatici alla spesa, non esercitino una pressione finale sui tassi di interesse ancora maggiore di quella presuntamene esercitata da quelle politiche più espansive rese possibili dalla linea della stabilizzazione?

Se i mercati incorporano nelle loro aspettative una riduzione della crescita italiana (o anche solo delle sue potenzialità) l’effetto prevedibile sulle aspettative formulate circa l’andamento temporale del rapporto debito/pil e le sue conseguenze sui tassi sarebbe forse ancora più negativo. Quindi, i timori che vengono adombrati dopo il declassamento del debito italiano sono per lo meno esagerati.

Negli attacchi alla linea sostenuta dai sottoscrittori dell’appello vi sono però degli elementi di riflessione che rischiano di passare in secondo piano. Ciò sarebbe un male e, pertanto, proverò a raccoglierli e discuterli per sommi capi.

Un primo elemento è dato dall’attacco alla spesa pubblica cosiddetta “improduttiva”, ovvero l’attacco agli sprechi mosso dai critici dell’Appello. Spreco è un uso eccessivo di risorse rispetto al risultato conseguito (spreco di input) o un minor risultato rispetto al livello tecnicamente possibile a parità di risorse impiegate (rinuncia all’output possibile). Temo che il settore pubblico (ma anche quello privato) italiano abbondi di sprechi di questo genere, anche se in moltissimi casi è impossibile definire e misurare input e output. Non voglio fare degli esempi perché la mia argomentazione procede dando ragione alla tesi critica dell’Appello e quindi assumo che sia così.

Non ne ricavo però una ragione a favore di tagli automatici. Se un contadino scoprisse che alcuni cani dormono mentre le faine gli rubano le galline, non gli servirebbe a nulla ridurre automaticamente il numero totale dei cani e, men che meno, quello delle galline. La cosa migliore da fare sarebbe quella di ristudiare il rapporto efficiente tra cani e galline dati i pollai da sorvegliare, e magari incentivare i cani a stare svegli.

Per i grandi istituti del welfare italiano le cose stanno, fuor di metafora, negli stessi termini. Proporre tagli senza un’idea accurata su input, tecniche ed output, motivandoli con la riduzione del rapporto debito/pil, significa rovesciare il rapporto tra obiettivi e vincoli in un processo di massimizzazione. I vincoli all’azione pubblica non possono trasformarsi in obiettivi: prima si definisce cosa vogliamo che diventino (o che rimangano) i grandi istituti del welfare e poi, tenendo conto anche in senso intertemporale dei vincoli finanziari, valutiamo in che misura possono essere ottenuti gli obiettivi.

Pensano forse i critici dell’appello che il mercato soddisferebbe meglio le esigenze rispetto a come può farlo l’azione pubblica? Ovvero che il government failure sia più costoso del market failure? Forse i critici pensano che i trasporti locali miglioreranno se metteremo all’asta le concessioni? Che giudizio danno i critici dei risultati finali delle privatizzazioni di tutte o quasi le grandi utilities pubbliche italiane? Perché non avviamo una discussione su queste cose?

In secondo luogo i critici chiedono tagli cosiddetti strutturali subito, ovvero in finanziaria. Non li si può accontentare perché la legge finanziaria non è lo strumento adatto allo scopo. La finanziaria dovrebbe prima o poi tornare ad essere lo strumento che nelle intenzioni dei legislatori del 1978 doveva essere, ossia un puro e semplice ponte tra un bilancio dello stato e quello dell’anno successivo. Adesso è l’atto fondamentale della politica economica di breve termine, ma ciò è un male.

Mi spiego: supponiamo di aver già fatto il lavoro analitico di cui parlavo sopra. La fase attuativa deve procedere attraverso strumenti di legislazione ordinaria, come fatto nel 1995, nel bene o nel male, per le pensioni. Fare i tagli strutturali in finanziaria significa far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, ovvero mettere il vincolo di bilancio al primo e forse unico posto e sottomettere l’azione parlamentare all’assillo dell’esercizio provvisorio.

In terzo luogo i critici sembrano sottovalutare le esigenze di redistribuzione del reddito della fase attuale. Purtroppo anche una parte di spesa “improduttiva” serve a tale scopo e se la eliminiamo dalla sera alla mattina comprimiamo ancora di più anche molti consumi popolari, quelli fatti da persone che consumano prevalentemente beni di produzione nazionale e non concorrono a peggiorare la bilancia commerciale. Imposte, spesa assistenziale e tariffe vanno certamente riviste e nessuno chiede un aumento generale della pressione fiscale per finanziare trasferimenti a chi non ne avrebbe diritto. Anche in questo caso, però, e tenendo conto dell’impatto redistributivo delle eventuali manovre, occorre applicare il metodo della valutazione analitica e di merito, istituto per istituto, e non quello dei tagli automatici.

Più in generale, tra gli economisti che contestano l’Appello sembra prevalere l’idea che uno spostamento generalizzato di risorse dal settore pubblico (variamente inteso) a quello privato sia cosa utile alla crescita, perciò ben vengano persino i tagli. Penso che il nodo vero sia questo ed è un male che resti inespresso. Anche in questo caso bisognerebbe avere la serenità per avviare un confronto nel merito. Per fare riforme utili alla crescita occorrono tempo, risorse e capacità di direzione. La politica dell’abbattimento del rapporto debito/pil non ci fornisce né l’uno né le altre.

Se si cercasse di forzare una politica di revisione strutturale dell’azione del settore pubblico dentro la gabbia delle politiche di bilancio restrittive si otterrebbe solo conflittualità sociale. L’opzione offerta dalla proposta di stabilizzazione del rapporto debito/pil appare invece più adatta perché ci dà il tempo necessario per correggere ciò che va corretto dell’azione pubblica, non ci toglie le risorse da usare per lo sviluppo e la redistribuzione e ci dà la possibilità di valutare senza pregiudizi in quali termini costruire il rapporto tra settore pubblico e settore privato.

*Università di Milano Bicocca