Sono un nano, lo so. E da sempre mi intimidiscono i giganti del pensiero come il professor Angelo Panebianco. Ma ancor più mi sconvolge la loro disinvoltura quanto discettano di Stato di diritto. La sanno sempre più lunga. Sia quando criticano (giustizialismo! vade retro satana!) chi vorrebbe applicare le regole anche a coloro che possono e contano e non soltanto ai poveracci. Sia quando discettano sulla tortura, anche in questo caso ammettendo la liceità di strappi alle regole per meglio tutelare la «sicurezza». Saranno giganti, saranno campioni di democrazia liberale, ma forse non si accorgono che le loro brillanti riflessioni sugli «aspetti più spiacevoli dell’esistenza» rischiano di innescare un circolo vizioso pericoloso.
Perché si legittimano nuovi poteri, così assoluti da costituire essi stessi un problema per le libertà e per la democrazia, nel momento stesso in cui si sostengono azioni finalizzate – si dice – proprio alla tutela e all’esportazione di questi valori.
È il caso di chi – appunto – teorizza l’ineluttabilità, se non la necessità, di «zone grigie», di «compromessi», di «scelte di riduzione del danno» a fronte della minaccia terroristica. Le denunzie, sempre più frequenti e documentate, secondo cui maltrattamenti e torture sono ormai praticati con sistematica protervia non preoccupano per nulla. Il problema non è l’incivile diffusione della tortura. Interessa di più provare a giustificarla, la tortura: sostenendo che potrebbe esservi una tortura “buona” e quindi tollerabile. Una tesi che dovrebbe fare rizzare i capelli in testa. A tutti. Invece c’è chi vi si esercita (Panebianco non è il solo; c’è persino chi auspica la previsione in certi casi di un mandato del giudice… a torturare), perché la lotta al terrorismo non ammetterebbe cedimenti o indulgenze. Sono bestemmie. Aberrazioni che invece di aggredire le ingiustizie (come la tortura) capaci di generare nuova rabbia e nuova violenza, creano ingiustizie sempre più gravi.
Vero è che la sicurezza è un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell’impegno più intenso), ma è altrettanto vero che non può essere un tema esclusivo. Altrimenti, c’è il rischio che i diritti e le garanzie diventino ostaggio della sicurezza. Che un sistema politico debba ispirarsi a logiche di sicurezza è ovvio. Ma attenzione a non avvitarsi dentro logiche contorte ed inefficaci. A non fare come Penelope: gridando pace di giorno, ma preparando ingiustizie (e violenze) di notte.
Se poi volessimo essere cinici anche noi (nani), considerando i princìpi alla stregua di un taxi e trattando le regole come fossero chewing-gum, potremmo aggiungere che impegnarsi seriamente sul versante delle garanzie e dei diritti, non accantonandone la pratica effettiva a tempi migliori (non più di “stato d’eccezione”), non solo è buono e giusto: è anche conveniente, è un antidoto contro possibili trappole. Un antidoto che ai tempi del terrorismo brigatista degli anni 80 (stellarmente diverso dal terrorismo internazionale di matrice islamica e tuttavia ancora utile per alcune indicazioni di massima) abbiamo sperimentato in concreto. Qual era la teoria dei brigatisti? Era che la rivoluzione non si processa, che la lotta armata non può essere fermata da un codice penale.
Ma insieme a queste “riflessioni” c’era quella, fondamentale nella logica brigatista, che lo Stato democratico non esiste, è puramente e semplicemente una finzione, un paravento, una maschera. Noi brigatisti – dicevano – un colpo dopo l’altro, cioè un omicidio dopo l’altro, una gambizzazione dopo l’altra, un sequestro dopo l’altro, faremo cadere questa maschera, disveleremo il volto autentico dello Stato: volto autentico che non è democratico ma reazionario e fascista, di negazione dei diritti, di ogni possibilità di progresso, in particolare di crescita del proletariato, delle classi sociali più bisognose.
E quando questo vero volto dello Stato sarà disvelato, ecco che le masse – avendo finalmente capito, grazie a noi brigatisti, come stanno davvero le cose – si ribelleranno e ribellandosi si riuniranno automaticamente intorno all’avanguardia organizzata già esistente che siamo noi delle Br, innescando la palingenesi rivoluzionaria.
È evidente che semplifico molto, che brutalizzo concetti che persino i brigatisti esponevano a volte in maniera più sofisticata. Ma è per intenderci, per capire che siamo riusciti a non cadere nella trappola tesa dai brigatisti. Perché la risposta al terrorismo brigatista, dal punto di vista legislativo, ha raschiato – lo ha detto più volte la Corte Costituzionale – il fondo del barile della corrispondenza ai precetti costituzionali, ai principi portanti dello stato di diritto, ma non è mai andata oltre. Abbiamo elaborato una legislazione “specialistica” mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma non abbiamo creato tribunali speciali o procure speciali, a differenza di altri Paesi di democrazia occidentale che lo hanno fatto.
Abbiamo cercato risposte anche utilizzando in pieno gli strumenti della democrazia: la libertà di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo e via seguitando (penso alle migliaia di assemblee sul terrorismo che han consentito di spazzar via gli equivoci mefitici dei «compagni che sbagliano» o l’assurdità paralizzante del «né con lo Stato né con le Br»). Ciò che alla fine ha creato un forte, decisivo isolamento politico intorno ai terroristi, che – a partire da questo momento – invece di continuare ad illudersi di essere le avanguardie di qualcuno, hanno capito di essere le avanguardie soltanto di sé stessi e hanno cominciato ad afflosciarsi dal punto di vista politico (e psicologico), entrando in una crisi irreversibile.
Ecco, non siamo caduti nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto fascista, reazionario, repressivo, spietato senza se e senza ma, dello Stato che loro – i brigatisti – pretendevano di evocare in tutti i modi. E questo indubbiamente ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo.
Oggi, chi filosofeggia teorizzando la legittimità della tortura e quindi accettandone la pratica, ci fa correre il rischio concreto di cadere in una trappola del tipo che per fortuna al tempo del brigatismo rosso non scattò. Una trappola che potrebbe pure farci perdere punti di orientamento molto importanti, invece di aiutarci a veder chiaro anche nella scelta delle risposte più opportune a livello repressivo. Non ci conviene.
E le «ipotesi di scuola» utilizzate dal professor Panebianco per «fare scandalo» (?) non sono soltanto inaccettabili. Sono anche un boomerang.