Chi chiederà scusa ai pacifisti?

E ora chi chiederà scusa ai pacifisti? Non stiamo parlando del risarcimento informativo, scippato da uno sciopero improvvido, che tanto non ci sarà mai – basta guardare le pagine dei giornali di ieri. No, parliamo di quella sfilza di allarmismi, di “segnali preoccupanti” e di ingiurie che sono piovute sulla manifestazione di sabato scorso nella settimana precedente. Il massimo lo ha toccato il Corriere della Sera che in una stessa pagina è riuscito a collegare del tutto arbitrariamente gli scontri dell’11 marzo a Milano, la manifestazione dei commercianti con le polemiche tra Prodi e Berlusconi e il corteo contro la guerra annunciato da almeno due mesi. Ma questa è solo la ciliegina sulla torta perché, a nemmeno un’ora dalla partenza della manifestazione, lo stesso Romano Prodi annunciava su TgSky24: «Se non si è grado di far svolgere una manifestazione per la pace senza violenze allora è meglio non farla». E di quale violenza parlava il Professore? Chi gli aveva suggerito una simile assurdità?
Di tenore analogo sono state le reazioni del centrosinistra, defilatisi con un discutibile senso dell’opportunità fino ad arrivare alla scelta, incomprensibile, della Cgil che ha alimentato un clima di preoccupazione e paura per un corteo dalle caratteristiche ben note e comprovate da oltre tre anni di impegno da parte del comitato promotore.

Duro destino, quello dei “cattivi” pacifisti che ogni volta che decidono di manifestare devono prima munirsi dell’attestato di buona condotta e rassicurare l’universo mondo sulle proprie dorate intenzioni e sulla propria capacità di garantire l’agibilità democratica (che invece, i “buoni”, non sono in grado di garantire nemmeno a un convegno della Confindustria).

E’ così da quando c’è la guerra, la nuova guerra, quella globale e permanente. Ve la ricordate la manifestazione contro l’attacco all’Afghanistan del 10 novembre 2001? Lì, non solo si doveva fronteggiare la provocatoria parata filoUsa organizzata in piazza del Popolo da Giuliano Ferrara – peraltro fallita e battuta dal corteo della pace per tre a uno – ma tra le fila del centrosinistra prese piede la solita cantilena che parlava di una manifestazione “inopportuna”, “ma chi ci garantisce che dopo i fatti di Genova.. ”, ma “è meglio il raduno pacifico”, e così via. Quella manifestazione, durissima – per la sua difficoltà e per la tensione emotiva che si dovette sopportare solo pochi mesi dopo Genova – resta una delle pietre miliari di questo movimento (e non a caso allora ci fu qualcuno che ebbe il coraggio di chiedere scusa). E che dire dell’anno seguente, il 9 novembre 2002 a Firenze, al Social Forum quando dal Corriere della Sera (sempre lui) fino a Oriana Fallaci, passando per i nerboruti seguaci di Fini e Berlusconi, si produsse l’alleanza tricolore che doveva ergersi a salvaguardia dei monumenti fiorentini messi a rischio dalle “canaglie” no global. Ancora una volta, un oceano di pace, nessun incidente, tanta tensione e tanta gioia per aver vinto la sfida. E poi ancora, altre volte, sempre con un coro malaugurante a gufare sui poveri pacifisti che ormai sono abituati e forse, proprio in virtù di tale tifo, sono in grado di far riuscire le manifestazione senza più l’aiuto di nessuno, nemmeno del “mitico” servizio d’ordine della Cgil.

La manifestazione di sabato scorso può dirsi riuscita non solo per i numeri, le parole d’ordine (il “senza se e senza ma” che, ci dispiace per i moderati del centrosinistra, non è mai tramontato) e il clima sereno, ma anche per la capacità di saper rispondere compostamente a quel fiume disordinato di parole indecenti. Perché se lo provochi, questo popolo fatto di una miriade di comitati e di gruppi sparsi, di associazioni non dome, di militanti allenati, ti risponde al meglio. E fa politica. Ed è questo che, in fondo, fa paura. Perché il corteo di sabato ha riproposto ancora una volta la pace come prospettiva politica, irriducibile non solo – e ci mancherebbe – all’unilateralismo imperialista degli Stati Uniti ma anche all’ipotesi di un ordine mondiale concertato, magari sotto la tutela dell’Onu o della Nato o dell’Europa. Parliamoci chiaro, quel corteo, con i suoi umori e la sua lucidità, non può riconoscersi nel Prodi che durante il faccia a faccia con Berlusconi dice che “sull’Iran noi agiremo se ce lo chiede l’Onu”. No, quel corteo parla il linguaggio, alto e innovativo, della pace come politica estera, del disarmo come scelta immediata, della chiusura delle basi straniere, del ritiro delle truppe “senza se e senza ma”, non solo dall’Iraq ma anche dall’Afghanistan, della pace in Medioriente a partire dal giusto riconoscimento di uno stato palestinese. Per questo c’è stato un accanimento terapeutico su una giornata che sembrava difficile e che molti volevano impossibile. Per questo è stato necessario ripararsi anche da una certa dose di “fuoco amico”. Il movimento ce l’ha fatta ma la domanda resta: c’è qualcuno che ha il coraggio di chiedere scusa?