Che ne facciamo di questo debito

L’articolo di Paolo Leon del 2 agosto scorso opportunamente segnala ai lettori dell’Unità il tema della stabilizzazione del debito pubblico. Si tratta di una proposta concreta per un indirizzo alternativo di politica economica di cui si discute già da tempo a sinistra. Originariamente avanzata due anni or sono da Emiliano Brancaccio e dal sottoscritto, la proposta di stabilizzare anziché abbattere il debito ha animato il convegno «Rive Gauche» del settembre 2005 nel quale, come non accadeva da anni, è stato riavviato un confronto tra economisti «critici» e leader delle forze politico-sindacali di sinistra (gli atti del convegno, a cura di Sergio Cesaratto e mia, sono stati appena pubblicati da Manifestolibri). Dagli sviluppi di questo confronto è scaturito il nostro appello «Non abbattere il debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il Paese», sottoscritto in pochi giorni da oltre sessanta economisti, tra i quali alcune firme prestigiosissime come quelle di Pierangelo Garegnani e Augusto Graziani (l’appello, pubblicato il 16 luglio scorso dal manifesto, è sul sito www.appellodeglieconomisti.com).
L’appello degli economisti chiarisce che esiste una credibile alternativa alla politica di abbattimento del debito pubblico sulla quale ruota l’intera costruzione del Dpef da poco varato dal governo. L’alternativa consiste nella stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e Pil ai valori correnti. Gli economisti firmatari evidenziano che non sussistono vincoli tecnici e/o istituzionali che obblighino il governo a perseguire l’abbattimento del debito. I differenziali sui tassi sono infatti ai minimi storici e non vi è alcuna ragione plausibile per ritenere che la stabilizzazione del debito possa incidervi in modo non trascurabile.
Inoltre, considerata anche la struttura del debito (durata media e rapporto tra componenti a tasso fisso e variabile), i toni allarmistici sugli effetti di breve e medio periodo di eventuali incrementi del tasso di riferimento e/o di eventuali declassamenti del debito da parte delle agenzie di rating appaiono del tutto ingiustificati.
Ed ancora, c’è da tener conto che il Trattato di Maastricht non prevede alcuna sanzione per i Paesi che non rispettino il parametro del rapporto tra debito e Pil al 60%. I meccanismi sanzionatori sono previsti solo qualora il deficit pubblico superi il valore del 3% del Pil. Ma anche su quest’ultimo punto, dopo le violazioni non sanzionate, la revisione del Patto e le vicende del Trattato Costituzionale, è difficile immaginare che non si possano contrattare in sede europea margini ulteriori di aggiustamento.
Insomma, nessuno costringe il governo a inanellare l’impressionante serie di avanzi primari avanzata dal Dpef. L’abbattimento del debito è dunque una scelta puramente politica, ed è per giunta una scelta rischiosa: essa finirà infatti per imporre tagli della spesa, incrementi delle entrate non reimpiegabili nell’economia nonché nuove dismissioni e privatizzazioni, collocando inesorabilmente in subordine le fondamentali esigenze di rilancio economico del Paese e di maggiore equità sociale. Di questa nefasta tendenza già si intravedono i primi segnali: coloro che avessero dubbi a riguardo possono rivolgersi, tra gli altri, ai rappresentanti degli enti locali e al ministero dell’Università.
L’adozione di una politica di stabilizzazione del debito pubblico comporterebbe invece considerevoli vantaggi, liberando ingenti risorse per il rilancio del Paese. Richiedendo avanzi primari molto contenuti rispetto a quelli necessari ad abbattere il debito, la stabilizzazione libererebbe da 6 a 20 miliardi di euro già nel 2007 (a seconda che si usino le stime del Dpef o del Fmi sul costo del debito e sul tasso di crescita del Pil nominale) per arrivare ad almeno 54 miliardi di euro nel 2011.
La proposta di stabilizzare il debito pubblico è dunque tecnicamente applicabile e politicamente sostenibile. Essa evidenzia l’infondatezza dei dogmi ultra-liberisti del cosiddetto «risanamento finanziario» e libera le risorse indispensabili per lo sviluppo economico e l’equità sociale.
Per queste ragioni, l’appello degli economisti sta ottenendo la piena e convinta adesione di sempre più numerosi e autorevoli esponenti del mondo sindacale e politico, sin dentro l’esecutivo. Dobbiamo augurarci che nel dibattito sulla finanziaria queste voci vengano ascoltate, e che si determini finalmente una correzione di rotta negli indirizzi di politica di bilancio.

*Università del Sannio