Se pensate che sia una sostanza prodotta ininterrottamente da qualche misteriosa forza geologica nelle profondità della terra, non leggete oltre. Meglio conservare l’illusione che, mattina dopo mattina, continuerete a far girare la chiavetta dell’accensione per il resto della vostra vita. Se invece avete qualche nozione, seppur confusa, sul fatto che i combustibili fossili c’entrino in qualche modo con del materiale organico che una volta c’era e adesso non c’è più, anche voi sotto sotto sapete che, prima o poi, la pacchia è destinata a finire. La brutta notizia è che quel momento è arrivato: il petrolio sta finendo. Ora.
Qualche informazione utile
Il petrolio è in sostanza materia organica liquefatta derivata dalla decomposizione di un immenso deposito di alghe e plancton che risale a cinquanta milioni di anni fa. Nel corso dei millenni il movimento di immense forze geologiche ha intrappolato e cotto ad altissima temperatura quella che può anche venire definita come energia solare condensata, concentrandola in alcuni giacimenti situati a profondità variabile in alcuni luoghi del mondo. A differenza dell’energia solare rinnovabile, i combustibili fossili si sono prodotti in un dato periodo e a date condizioni che non si sono presentate ovunque e che non si ripresenteranno mai più, motivo per cui simili fonti vengono dette, appunto, non rinnovabili.
Lo sfruttamento di un giacimento si suddivide in tre fasi che possono variare a seconda di molti fattori – dalla qualità del petrolio alla quantità di gas presente nel “serbatoio” – ma che, sostanzialmente, sono sempre le stesse. Nella prima fase, detta di “recupero primario”, il gas presente nel giacimento tiene sotto pressione il liquido che, una volta trovata la via d’uscita, viene spruzzato fuori come lo champagne. Tutto il lavoro consiste nel trovarlo, il benedetto giacimento, ma una volta azzeccato il punto giusto dove scavare non resta che godersi la pioggia nera facendo salti di gioia come James Dean nel Gigante. In questa fase i costi di estrazione sono bassissimi, consentendo un rapido recupero delle spese iniziali.
Dopo un po’ di tempo però, lo svuotamento del pozzo fa diminuire la pressione. Il passaggio alla seconda fase, nella quale si cerca di ristabilire la pressione ripompando dentro gas o acqua, diventa inevitabile e a questo punto i costi cominciano a lievitare. Invece di limitarsi a raccogliere la manna bisogna procurarsi l’acqua – magari attraverso costosi processi di desalinizzazione, come in Arabia Saudita – iniettarla nel giacimento e poi separarla dal petrolio estratto dal sottosuolo. Più i pozzi sono vecchi e più la percentuale d’acqua aumenta – e con essa i rispettivi costi – mentre diminuiscono i ricavi: nei giacimenti texani – sempre quelli del Gigante – bisogna tirare fuori dieci barili d’acqua per ottenerne uno di petrolio. Il che aggiunge un problema ambientale notevole se si pensa che, a livello mondiale, l’acqua di scarto raggiunge i 200 milioni di barili al giorno, quasi tre volte il volume del petrolio prodotto.
A questo punto il gioco comincia a non valere più la candela. La terza fase di recupero è talmente costosa che basta un piccolo calo nel prezzo del greggio per rendere più conveniente chiudere il pozzo piuttosto che sfruttarlo. A questo punto la qualità del petrolio si è deteriorata, il gas si è concentrato in una sorta di “tappo” che rende difficile ogni operazione di recupero e si finisce per pompare il petrolio meccanicamente, consumando tanta energia quanta se ne produce.
Gli enormi progressi della tecnologia estrattiva hanno trovato soluzioni geniali a una miriade di problemi ma non hanno alterato un processo che, al contrario, è stato notevolmente accelerato dalla gestione poco razionale di tutti i soggetti coinvolti, che fossero corporation private con smania di profitto o governi con interessi geostrategici precisi: invece di operare con l’obiettivo del lungo termine, tutti si sono quasi sempre mossi nel ristretto orizzonte del “tutto e subito”. Tecniche raffinate di gestione del ciclo dell’acqua sono state affiancate alle perforazioni orizzontali e, da qualche anno, si è cominciato a raccogliere il gas di scarto invece di limitarsi a bruciarlo nell’atmosfera, ma il risultato non cambia: prima o poi i giacimenti invecchiano, e muoiono.
Il picco di Hubbert
Nel 1956 M. King Hubbert, famoso geologo passato dalla Shell al Geological Survey statunitense, rese pubbliche alcune conclusioni tratte da modelli matematici estremamente elaborati e dalla sua esperienza sul campo. L’oro nero, sostenne Hubbert, avrebbe raggiunto la punta massima di produzione (il cosiddetto picco) verso la fine del Novecento, per poi diminuire in modo abbastanza repentino fino all’esaurimento. Sebbene all’epoca la teoria del picco venne liquidata come semplice catastrofismo, oggi nessun esperto si sogna più di negare la possibilità – anzi, la certezza – dell’approssimarsi del picco, ma continuano a dividersi sul quando. Il motivo principale della riabilitazione della teoria è uno soltanto: Hubbert aveva azzeccato la data del picco americano. Nel 1970, infatti, la produzione petrolifera statunitense raggiunse la punta massima, poi il flusso dei grandi giacimenti cominciò a diminuire, e così il numero dei barili prodotti ogni giorno.
Naturalmente se conoscessimo il volume totale del petrolio a disposizione, sottraendolo a quello che abbiamo bruciato in questo secolo di pacchia (una cosa come 875 miliardi di barili), potremmo farci due conti. Ma su questa terra non c’è informazione più segreta, sia per oggettive difficoltà (si lavora sempre alla cieca, a centinaia di metri di profondità) sia per le ragioni politiche e commerciali che spingono i principali attori a sovrastimare le proprie scorte. Ci sono le cosiddette “riserve accertate” costituite dalle scorte delle compagnie petrolifere – che le sovrastimano per tenere alte le quotazioni in borsa – e da quelle di paesi come la Norvegia o l’Arabia Saudita – che possono sovra o sottostimare a seconda delle contingenze politiche. Al petrolio già scoperto ma non ancora sfruttato – secondo alcuni esperti circa 1700 miliardi di barili – bisogna aggiungere quello ancora da individuare – suddiviso a sua volta fra “probabile” e “possibile” – il cui calcolo è ancora più aleatorio. Secondo i più ottimisti ci sono circa 900 miliardi di barili ancora da scoprire che, sommati alle riserve accertate, danno la rassicurante cifra di 2.600 miliardi. Visto che il consumo mondiale si aggira sugli 80 milioni di barili al giorno e continua a crescere del 2 per cento l’anno (ma c’è chi dice di più), la riserva di 2.600 miliardi collocherebbe il picco globale intorno al 2030 o anche più avanti, se si riuscissero a comprimere i consumi o a rendere energicamente più efficiente la produzione industriale.
Gli ottimisti inoltre continuano a sperare che vengano scoperti nuovi giacimenti giganteschi, anche se non succede da quasi trent’anni ed è considerato dagli esperti alquanto improbabile. Il motivo è molto semplice: fra tecnologia satellitare, prospezioni sismiche e chi più ne ha più ne metta ormai abbiamo setacciato la terra palmo a palmo. Potremmo non aver scovato una piccola riserva, ma difficilmente ci può essere sfuggito un grande giacimento. Molti esperti sostengono che fra petrolio accertato e quello non ancora scoperto le scorte non superino i mille miliardi di barili, collocando il picco globale intorno al 2010, ma ci sono analisti che, dati di produzione alla mano, pensano che il declino sia già cominciato e collocano il picco massimo di produzione nel 2004. Chi ha ragione? Un’occhiata ai giacimenti vale più di mille calcoli.
In via di esaurimento
Vero e proprio bastione del petrolio non-Opec, l’Alaska sembra aver già imboccato la strada della pensione malgrado i miliardi di dollari investiti. Del resto anche nelle piattaforme del Mare del Nord il flusso è in netto calo: malgrado la scoperta di un nuovo giacimento la produzione del Regno Unito ha raggiunto il suo picco nel 2002, e ora conosce un rapido declino. Il Messico, ubbidiente fornitore degli Stati Uniti, potrebbe aver toccato il picco proprio quest’anno mentre la Nigeria, considerata dalla Casa Bianca una valida alternativa, potrebbe raggiungerlo nel 2007. E che dire del petrolio russo? Iper-sfruttato come unica fonte di valuta pregiata, ha cominciato a ridursi già dal 2003 anche se, da quelle parti, nessuno è disposto a pronunciare la parola “picco”. Secondo gli esperti americani il petrolio non-Opec potrebbe “piccare” entro il 2015, lasciando l’Occidente in balia delle riserve mediorientali, principalmente dell’inesauribile cornucopia dell’arabian light, come si chiama il più puro petrolio del mondo che si trova subito sotto al deserto dell’odiata Arabia Saudita.
Questa prospettiva, benché carica d’inquietanti implicazioni politico-militari, può considerarsi ancora moderatamente ottimista perché non fa i conti con lo stato dei giacimenti sauditi, informazione del tutto inaccessibile al di fuori di qualche membro della famiglia reale e dei tecnici che, materialmente, lavorano nell’area considerata la madre di tutti i giacimenti. Fra la gran mole di libri pubblicati quest’anno sulla questione spicca Twilight in the desert (Crepuscolo nel deserto) di Mattehw R. Simmons, ex-consulente di Bush e capo della Simmons & Company International di Huston, una banca d’investimenti specializzata in questioni energetiche. Per tentare di sbirciare nel “serbatoio del mondo” Simmons ha pensato bene di utilizzare le uniche informazioni affidabili sulla salute dei giacimenti sauditi, ovvero l’inesauribile mole di documenti tecnici pubblicati dalla Society of Petroleum Engineers, la società scientifica che raggruppa gli ingegneri petroliferi del pianeta.
Dall’esame di report in massima parte scritti per scambiarsi informazioni sulle innovazioni tecnologiche e per confrontarsi sui problemi che queste comportano, Simmons ha tratto conclusioni sulla salute dei giacimenti sauditi ben diverse da quelle fornite dalle istituzioni internazionali – l’Iea o l’Opec, tanto per citare le principali – o dallo stesso governo saudita. Viene fuori infatti che gli ingegneri stanno affrontando da anni problemi relativi alla gestione dell’acqua tipici della seconda fase di sfruttamento dei giacimenti, e anche le tecnologiche più avanzate – come i pozzi orizzontali – non riescono più ad arginare un calo della produzione che si registra anche nei giacimenti più grandi. La dettagliata diagnosi delle condizioni di Ghawar, il più grande giacimento del mondo che si fa carico, da solo, della maggior parte dell’ingente produzione saudita, è a dir poco allarmante. La recente campagna mediatica condotta nel 2004 dalla compagnia di stato, la Saudi Aramco, per rassicurare il mondo sulle potenzialità tecnologiche dell’azienda, lascia il tempo che trova: i giganti del deserto sono avviati verso il declino malgrado gli sforzi dei tecnici e l’impiego di tecnologie fra le più avanzate del settore.
C’è vita dopo il petrolio?
In The long emergency (La lunga emergenza), altro libro pubblicato nel 2005 con l’inquietante sottotitolo Sopravvivere alle convergenti catastrofi del Ventunesimo secolo, James Howard Kunstler propone una lettura destinata a ribaltare completamente l’idea corrente di progresso tecnologico e di sviluppo economico. In sostanza, scrive Kunstler, «l’età del petrolio a buon mercato ha creato una bolla artificiale di abbondanza per un periodo non più lungo di un secolo». Perfino la “rivoluzione verde”, che consente di sostenere una popolazione di gran lunga eccedente la capacità del pianeta smentendo ogni apocalittica previsione maltusiana, «riguarda più l’impiego massiccio di fertilizzanti e pesticidi derivati dal petrolio, così come l’irrigazione su vasta scala, che non le innovazioni nel campo della genetica». Una volta fuori dalla “bolla petrolifera”, secondo l’autore, ci ritroveremo nella dura realtà dei limiti materiali allo sviluppo, limiti che l’industrializzazione accelerata basata sull’energia a prezzi stracciati ci ha fatto ingenuamente sottovalutare.
Ovviamente, in questa prospettiva, qualsiasi dibattito sul tipo di politica industriale che vorremmo – se la grande industria vecchia maniera, il “piccolo è bello” degli ambientalisti o la via di mezzo di uno sviluppo sì, ma “ecologicamente sostenibile” – appare drasticamente superato. La scelta fra continuare come se niente fosse, ignorando il degrado provocato dal massiccio impiego dei combustibili fossili fino ad accettare di sacrificare ogni città portuale del pianeta (questo dicono le proiezioni dei climatologi), oppure cercare di contenere produzioni e consumi per rallentare il riscaldamento globale, in realtà nemmeno si pone. Una volta finita la benzina l’effetto serra diventa davvero l’ultimo dei problemi. Stessa cosa può dirsi dell’annosa disputa fra liberisti e statalisti: la crisi energetica innescata dall’esaurimento del petrolio non può che essere guidata dai governi, così come avvenne per l’uscita dall’economia al carbone, una transizione lunga ed enormemente costosa (basti pensare agli oleodotti ramificati in tutto il pianeta) malgrado l’alternativa fosse allora già disponibile.
Che il picco sia già stato raggiunto come sostengono i pessimisti o che manchino almeno trent’anni come sostengono i petrolieri, in fondo non cambia poi molto. Prima o poi ogni governo di questo mondo sarà costretto a investire ogni risorsa disponibile in una completa trasformazione del proprio sistema di produzione, di trasporto e di consumo per raggiungere la massima efficienza e sprecare meno energia – attraverso il risparmio energetico, la ristrutturazione della rete elettrica e degli impianti produttivi, la riconversione al gas naturale e la produzione di macchine ibride – per far durare le scorte il più a lungo possibile. Nel frattempo, oltre a cercare di far sopravvivere le proprie economie all’impennata della bolletta energetica (si prospetta, entro un paio d’anni, lo sfondamento del tetto dei cento dollari al barile), cosa che ovviamente costringerà a recuperare le “ri-localizzazioni” e i suggerimenti del “piccolo è bello”, i governi dovranno mettere in moto a pieno ritmo la ricerca sulle fonti alternative (eolico, solare, idrogeno, biomasse, geotermico e chi più ne ha più ne metta) prima di approdare all’esaurimento definitivo.
Il problema non è quindi se, ma quando. Prima si smette di rimuovere l’emergenza e si comincia a programmare la transizione, più garanzie ci sono che questa possa avvenire nel modo più democratico e meno doloroso possibile, anche se le rinunce, dal punto di vista dei consumi, non saranno poche. Rimandare le impopolari decisioni da prendere per affrontare la crisi, e anzi negare perfino l’esistenza del problema, significa lasciare il timone nelle mani di chi il problema lo conosce bene e ha già pronta una soluzione: difendere con le unghie e con i denti il proprio modello di consumo andandosi a prendere il petrolio dove c’è, e spremere fino all’ultimo i profitti da una riserva sempre più sovvenzionata (per cercare giacimenti inesistenti) e sempre più redditizia (per via dell’aumento esponenziale del prezzo delle ultime scorte). E’ la strategia adottata dall’apparato militar-petrolifero-industriale statunitense, la cui ideazione, come si può leggere a chiare lettere nei rapporti della Cia già vecchi di dieci anni, non ha dovuto aspettare l’arrivo al potere dell’attuale presidente. E’ la logica darwiniana della sopravvivenza del più forte alla lunga emergenza di disastri ambientali da noi stessi provocati. Le immagini di New Orleans non potrebbero essere più eloquenti.