Che cosa è rimasto della guerra del gas

Esattamente due anni fa, stretto tra piazze furenti e lucrosi contratti di fornitura da onorare, il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada ordinava all’esercito di uscire dalle caserme e ripristinare l’ordine. Fece un massacro, ottanta morti almeno e centinaia di feriti, poi fuggì

La targa dice «mausoleo» ma è la sola cosa un po’ più alta di una tomba in tutto il cimitero di Tarapacà, il cielo basso delle Ande è un coperchio di blu, il diacono con la chitarra canta per un gruppo di cholas che piangono. «Justicia, carajo» – giustizia, cazzo – e la canzone è finita, il prete comincia a benedire bambini e donne con bombetta e pollera, il vestito delle donne andine. Sono le vedove e gli orfani della guerra del gas. Esattamente due anni fa, stretto tra piazze furenti e lucrosi contratti di fornitura da onorare, il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada ordinava all’esercito di uscire dalle caserme e ripristinare l’ordine. Fece un massacro, ottanta morti almeno e centinaia di feriti, poi fuggì. In tutta la Bolivia, dove ci sia stato un nome da ricordare, in questi giorni accade la stessa cosa. Onore ai nostri morti, processo al «Gringo» De Lozada. ***

«Morirono, era sabato, un giorno come oggi»: a Nestor Salinas ammazzarono un fratello e le truppe ne sequestrarono per ore anche la salma finché la gente andò a riprendersela a forza, si chiamava David, era il minore e oggi Nestor è il presidente del comitato delle vittime. Carlos cammina sulle stampelle, gli manca una gamba: glie l’ha strappata una raffica, quel giorno sparavano anche le autoblindo. Anche la sua gamba è seppellita a Tarapacà. Alex Llusco Mollericona aveva cinque anni e adesso è una cassetta bianca e un foto su un poster, un proiettile gli è entrato in bocca e gli è uscito dalla nuca. Dorme sulla collina come tutti i morti della guerra del gas, una delle colline a quattromila metri sulle Ande, di cui la Bolivia ha scoperto da poco la furia, terra di indigeni aymara poverissimi e furibondi che hanno cacciato gli ultimi due presidenti da Palacio Quemado – palazzo bruciato, perché nella storia è già andato arrosto due volte. Ora vogliono mettere le mani sulla loro prima vittima, l’assassino, il «Goni» De Lozada. E se lo giurano l’un l’altro accendendo un’altra candela. Come un insulto urbanistico, il cimitero di Tarapacà confina con una grande caserma di cavalleria. Da lì uscirono i massacratori.

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Era un autunno caldissimo in Bolivia nel 2003; manifestazioni una via l’altra. In estate De Lozada aveva fatto sapere che il gas boliviano di Tarija sarebbe andato a finire in Cile, attraverso il consorzio Pacific Lng. E aveva fatto male: in poche settimane il paese si era incendiato in difesa del suo idrocarburo, manifestando con molto rumore, chiedendo apertamente le sue dimissioni, fermando le autocisterne cariche di benzina che il governo aveva mandato a rifornire gli impianti di La Paz prosciugati da settimane di blocchi stradali, impedendo il ritorno anche ai turisti sul lago Titicaca (in centinaia rimasero bloccati). Il giorno 11 ottobre 2003 il «Goni» – il nomignolo che si era dato in campagna elettorale, per riuscire più popolare nonostante l’accento americano – decise che ne aveva abbastanza e ordinò all’esercito di uscire dalle caserme. Le truppe d’élite del Quarto Cavalleria Ingavi, di stanza a El Alto, infilarono avenida Juan Pablo II (proprio: con un’atroce croce di cemento nel mezzo, l’unica cosa che il papa abbia portato in quel viaggio in cima alle Ande) e la trasformarono in un camposanto. Uscirono e uccisero il primo giorno, uscirono e uccisero il secondo. Al terzo i soldati fecero sapere che non si sarebbero più mossi, perché erano quasi tutti montanari e di sparare su amici e parenti ne avevano abbastanza. Colonnelli e generali capirono, per il presidente De Lozada cominciò la fine.

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Donna Juana Valencia piange appesa a un gonfalone comunale. «Mio marito sta qui, morto di pallottola, si chiamava Marcelo Carabezal Loren, io sono sola con sei figli». Il cimitero di Villa Ingenio sta sotto lo stesso cielo che sembra un soffitto, a qualche collina di distanza dal centro di El Alto, al largo della terra che chiamano Ande, proprio accanto a un’imponente e fetida discarica che il vento si incarica di pubblicizzare per bene. Patricia Amalia Luna piange il marito, «si chiamava Damian Palacios», un altro nome su un altro mausoleo che svetta di un metro sopra una confusione di tombe sparse a caso da un becchino isterico – la licenza funeraria dura qualche anno, o si rinnova o il morto cambia casa e i «collas», la gente povera delle montagne, di soldi ne ha pochi e in generale servono di più ai vivi che ai defunti. Olga Quelce piange il figlio Luis Fernando, e il marito «morto di crepacuore», dice, pochi giorni dopo. Don Modesto Chino officia una breve messa, l’avvocato Rogelio Mayta ammette: «Questi assassini, non riusciamo a processarli perché sono ricchi». Sulla targa c’è scritto «Eroi della guerra del gas», e ci sono 22 nomi. Luis aveva 16 anni, scapolo, morto di pallottola. Florentino, Benita e Dominga, morti di ustioni in giorni diversi. Roxana, 19 anni, pallottola…

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Il 13 ottobre, con La Paz pronta a unirsi alla protesta e 20mila manifestanti a scontrarsi con l’esercito nelle strade, il vicepresidente Carlos Mesa ritirò il proprio appoggio al governo, «per motivi di coscienza». Negli obitori e nelle chiese tenute aperte dai parroci indignati c’erano già 63 morti, la gente andava a prendersi i corpi a forza, sfidando le fucilate. I contadini aymara abbattevano con le corde i ponti pedonali di cemento armato da cui l’esercito sparava, ai medici che gridavano di aver troppi feriti da assistere rispondevano «curateli tutti o buttiamo giù anche l’ospedale», e spinsero in strada a forza di braccia anche qualche vagone della ferrovia (quando tutto finì, la gru mandata a liberare la strada si ruppe nel tentativo di spostare i vagoni). Gli Stati uniti, l’Organizzazione degli stati americani, la Confindustria boliviana e un altro pugno di sigle nazionali e internazionali appoggiarono Sanchez De Lozada, che il 15 ottobre provò a frenare la fuga di gas che gli stava bruciando il paese, accennando alla possibilità di un referendum ma senza mettere alcuna data, e accusando i capi della piazza di cercare «una dittatura narco-sindacalista». I moti di piazza raddoppiarono di furore, in pochi giorni il governo perse quasi tutti i pezzi. Il 17 ottobre De Lozada annunciò che si sarebbe dimesso con un discorso alla televisione. Invece fece i bagagli, imbarcò la moglie Ximena, la figlia Alexandra, il suo ministro della difesa (Carlos Sanchez Berzain detto el zorro, la volpe) e quello agli idrocarbri Jorge Berindoague, beffò il servizio d’ordine disposto dal leader indigeno Evo Morales intorno a Palacio Quemado e fuggì in elicottero dall’Accademia militare di La Paz verso l’aeroporto militare di El Alto e di lì nella fedele Santa Cruz, tra i «cambas», la gente ricca della pianura con pulsioni secessioniste; infine, negli Stati uniti. Al cadere della notte, l’intera banda era già a Miami.

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La musica sta a metà tra la banda della parrocchia e gli Inti illimani, volano petardi di proporzioni gigantesche, una coorte in poncho avanza sulla strada e supera i resti di una casermetta di polizia fatta saltare in aria. Achacachi è il municipio ribelle degli aymara boliviani, un posto senza la minima traccia di un’autorità pubblica che non sia comunitaria – cioè nominata in assemblea e revocabile all’istante. Niente questori, soldati, poliziotti, niente esattori. I primi morti del gas sono arrivati qui, in settembre, quando l’esercito boliviano cercò di scortare fuori dai blocchi stradali centinaia di turisti rimasti bloccati sul lago Titicaca. Quattro aymara e un soldato morirono in uno scontro a fuoco a Warisata, la sede della prima straordinaria università india del paese, fucina di proteste e di movimenti. Il leader indigeno Felipe Quispe, il Mallku (capo), accusò il governo e si disse pronto a sparare, De Lozada accusò gli universitari, altre regioni si sollevarono, la Central obrera dichiarò lo sciopero generale indefinito e come prima richiesta le dimissioni di Lozada. Era la miccia che avrebbe fatto esplodere il paese e Achacachi lo ricorda con un avvenimento a suo modo storico: ricevendo una carovana internazionale di solidarietà. Gente di pelle bianca, che da un po’ non è praticamente più ammessa nella zona. La carovana Mayaki (in aymara «siamo uno solo») viene dall’Italia, è composta di militanti politici, simpatizzanti, esponenti di partito come Italo Di Sabato del Prc, da giornalisti e persino da un’istituzione: il comune di Roma, nelle persone della vicepresidente del consiglio comunale Monica Cirinnà e di un consigliere, Nunzio D’Erme. E’ una lunga e elaborata cerimonia, metà su una collina arroventata dal sole, metà nella sede occupata del municipio. Il «sindaco» di Achacachi, Eugenio Rojas, consegna al rappresentante di Roma una formale richiesta di aiuto: aiutateci a estradare e processare Gonzalo Sanchez de Lozada, il Goni, l’assassino.

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Da Miami, De Lozada si faceva intervistare accusando narcosindacalisti, terroristi e anche la slealtà del suo vice Mesa (che non durerà a lungo, e sarà costretto a dimettersi a sua volta). Capitali enormi, uffici a Washington, protezioni nella corte petrolifera dei Rockefeller, il «Gringo» De Lozada sembrava stare perfettamente a suo agio a nord del Rio Bravo. Ma con la piazze di Bolivia ancora in fiamme, il capo del Mas, il principale partito d’opposizione, l’aymara Evo Morales, chiese in parlamento l’incriminazione formale del presidente in fuga. Il 22 ottobre un giudice aprì la procedura di verifica dell’incriminabilità di Sanchez De Lozada ma solo un anno dopo, nel novembre 2004, una denuncia dell’associazione dei familiari delle vittime della guerra del gas è riuscita a far iniziare il processo. Il 22 giugno il dipartimento di stato americano ha ricevuto la formale richiesta di incriminazione per l’ex presidente e i suoi due ministri fuggiaschi, ultimi di una lunga serie di assassini che hanno trovato rifugio nel paese del dollaro e della «guerra al terrorismo». Particolare gustoso: De Lozada avrebbe un visto come accompagnatore della moglie, una matura signora della migliore aristocrazia boliviana, che a sua volta ha un visto come studentessa. Altro particolare gustoso: secondo alcune interpretazioni, la recente riforma del codice penale impedirebbe il processo in contumacia. Padre della riforma è stato proprio, mostrando grande lungimiranza, Sanchez De Lozada.

Alle richieste boliviane il ministero di Condoleezza Rice non ha nemmeno risposto, naturalmente, mentre l’ambasciatore in Bolivia David Greenlee continua a riunirsi con i principali rappresentanti del potere statale boliviano per gestire la complicata vicenda delle elezioni di dicembre (per i sondaggi è nettamente in testa Evo Morales, un cavillo costituzionale potrebbe addirittura bloccare il voto e sarebbero altre piazze incendiate, altri moti). E gli aymara boliviani, dal mezzo del niente in cima alle Ande, stanno lanciando quella che è una vera campagna internazionale per l’estradizione di Gonzalo Sanchez De Lozada e dei suoi complici. Justicia, carajo.