Chávez sequestra i giacimenti Eni e Total

Nelle mani dello Stato 80 mila barili di petrolio. Gli italiani pronti al ricorso. Le altre 18 società straniere si sono piegate alle nuove regole
Con un piede nel sistema capitalista e l’ altro in un non meglio definito «socialismo del 21° secolo», il Venezuela di Hugo Chávez prosegue nel suo cammino di sviluppo alternativo sotto lo sguardo incuriosito – e più spesso preoccupato – della comunità economica internazionale. Tutto, inevitabilmente, ruota attorno al petrolio, la ricchezza nazionale che a questi livelli di prezzo gonfia a dismisura le casse del governo «bolivariano» rendendo possibili esperimenti e stravaganze, come quella di inviare olio combustibile a prezzo politico non solo ai cubani ma persino a famiglie povere degli Stati Uniti. È invece una misura dalle conseguenze serie la decisione presa da Caracas, che ha spinto due multinazionali come l’ Eni e la francese Total ad abbandonare in questi giorni i rispettivi giacimenti in Venezuela. Ufficialmente non si tratta di esproprio, ma di un rassegnato lancio della spugna: le due società hanno ritenuto non conveniente proseguire a operare in Venezuela sotto le nuove regole volute dal governo di Chávez. E cioè aumento della tassazione, modifica delle royalties e maggioranza in mano alla compagnia statale Pdvsa. Eni e Total sono soltanto due delle 18 società straniere interessate alla riforma. Altre come Shell, Chevron e Repsol Ypf hanno accettato le nuove regole pur di continuare a operare in Venezuela, la Exxon ha venduto tutto. Italiani e francesi, invece, hanno lasciato scadere la data limite del 1° aprile e così gli 80.000 barili di petrolio estratti dai due giacimenti sono passati nelle mani dello Stato. Ma l’ Eni ha annunciato che ricorrerà contro quella che definisce una violazione degli accordi. Il governo di Chávez, impegnato in grandi spese sociali, tutte finanziate dalla Pdvsa, non vuole perdere nemmeno una goccia di petrolio. Sostiene che gli accordi precedenti risalgono agli anni della grande svendita allo straniero e che le compagnie hanno avuto quattro anni di tempo per mettersi in regola. La retorica del «nuovo socialismo» ha fatto molto rumore in questi anni, ma ha provocato finora pochissime fughe di investimenti stranieri. Una disputa analoga tra il governo e il gruppo Techint, proprietario di una grande acciaieria, si è risolta pacificamente qualche mese fa. Allo stesso modo, la minaccia di alcune banche straniere di lasciare il Paese – perché il governo imponeva nuovi controlli – non si è materializzata. Difficile abbandonare un Paese dove l’ economia cresce di quasi il 10 per cento all’ anno. Gli economisti di opposizione sostengono che il Venezuela social-chávista è un treno in corsa lanciato contro un muro: quando i prezzi del petrolio cadranno, della politica di spesa incontrollata per ottenere consenso non resteranno che macerie. Gli investimenti in sanità, educazione e case stanno aiutando molti poveri, dicono, ma non possono essere considerati una spesa produttiva. Hugo Chávez, tra un attacco a Bush e un milione di dollari spedito a Rio de Janeiro per vincere il Carnevale con il samba bolivariano, va avanti per la propria strada. Le soddisfazioni non gli giungono solo sul piano interno (a dicembre ci sono le elezioni e non si vede come possa perderle), ma anche su quello internazionale, dove la sfera di influenza si sta allargando da Cuba a molti altri Paesi dell’ America Latina. La vittoria di Evo Morales in Bolivia potrebbe essere seguita da quella di Ollanta Humala in Perù (primo turno domenica prossima), altro catturatore di malcontento antiliberista. I petrodollari di Caracas stanno finanziando il nuovo debito argentino postbancarotta (il Venezuela ha acquistato titoli per 2,5 miliardi di dollari) e nuovi grandi investimenti in Brasile, raffinerie e gasdotti.