Fidel Castro, Simon Bolivar, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Cristo Redentore. Hugo Chavez li ha invocati tutti, dal balcone del popolo al Palacio de Miraflores, mentre domenica sera celebrava il suo trionfo davanti a migliaia di sostenitori impazziti, sotto un’apocalittica pioggia tropicale. Li ha citati come ispiratori della sua rivoluzione, e della «nuova era» che ha promesso al Venezuela e al mondo. Il primo elemento da notare è che la sua vittoria nelle presidenziali è stata netta e abbastanza indiscussa. Chavez ha preso il 61% dei voti contro il 38% del rivale Manuel Rosales, che già domenica notte ha ammesso la sconfitta.
In questo modo, Rosales ha di fatto azzerato il pericolo di violenze e allo stesso tempo ha accreditato se stesso come probabile capo di un’opposizione unita e responsabile.
Fonti interne della sua campagna dicono che «qualche problema c’è stato, ma non di dimensioni tali da cambiare il risultato». Gli osservatori europei daranno il loro responso oggi, ma già ieri l’italiana Monica Frassoni, leader della delegazione, riconosceva che non ci sono contestazioni capaci di mettere in discussione la regolarità del voto: «Abbiamo partecipato ad una consultazione che si è svolta in un clima molto migliore del passato», nonostante resti qualche critica al processo. Dunque Chavez è il presidente democraticamente eletto del Venezuela, un paese dove tra l’altro l’opposizione controlla quasi tutte le televisioni principali. A qualcuno questo può non piacere, ma da ora in poi chi vuole opporsi alle sue idee deve farlo con la politica, non con la delegittimazione.
Il problema, dunque, è capire dove andrà il «chavismo» nei prossimi sei anni. Affacciato al balcone del popolo, il presidente è stato abbastanza chiaro. «Questa – ha detto – è un’altra sconfitta per il diavolo che vuole dominare il mondo. Abbiamo dato una lezione di dignità agli imperialisti: il Venezuela non sarà più una colonia nordamericana». Quindi la sfida a Washington continua e si allarga, perché dopo la vittoria di Daneil Ortega in Nicaragua, Rafael Correa in Ecuador, e la conferma di Lula in Brasile, Chavez è sempre più intenzionato a spingere il suo piano «Alba» per l’integrazione economica del continente. Il suo primo viaggio sarà proprio in Brasile, preceduto forse da una tappa a Cuba per salutare Fidel. La vicina Colombia è accerchiata, nell’attesa di poter riaprire il discorso anche in Messico. «Il mondo del Ventunesimo secolo – ha promesso Hugo – sarà multipolare», e quindi lui ha lanciato questo messaggio ai popoli americano, europeo, africano e asiatico: «No all’imperialismo». Non a caso, i primi complimenti li ha ricevuti dall’Iran. Chavez, in poche parole, vuole diventare l’erede di Fidel Castro, con la differenza che il suo Paese è il quinto produttore mondiale di petrolio.
Sul piano interno, il Presidente ha promesso di radicalizzare la rivoluzione bolivariana, e quindi approfondire i programmi sociali chiamati «missioni», con cui dà cibo, sanità e assistenza ai più poveri. I dettagli del suo «socialismo per il Ventunesimo secolo» sono ancora incerti, ma dal punto di vista istituzionale ha le idee chiare. Chavez vorrebbe creare un partito unico governativo e cambiare la Costituzione, in modo da poter essere rieletto senza limiti. Qui il Venezuela corre i rischi maggiori di una deriva autoritaria, che in certi settori è già visibile, per esempio nelle nomine dei giudici della massima corte nazionale fatte dal presidente.
Il bilancio interno del chavismo, per ora, è fatto di luci ed ombre. Ha ripreso in mano l’industria petrolifera, dove fino a poco tempo fa le aziende straniere pagavano un ridicolo 1% di tasse, e grazie al rialzo del greggio ha raddoppiato il pil, dai 92 miliardi di dollari del 2002 ai 170 previsti per l’anno in corso. La crescita marcia al ritmo del 10%, la più alta in Sudamerica, e la ricchezza si è diffusa. In Venezuela, ad esempio, si immatricolano più auto che in Argentina. La povertà è scesa dal 44 al 34%, ma l’inflazione resta al 15%, e i critici di Chavez sostengono che la sua assistenza è un regalo senza sostanza, perché non crea posti di lavoro o sviluppo economico di lungo termine. La povertà, ad esempio, continua ad alimentare la criminalità, che con 9.962 omicidi nel 2005 ha reso il Venezuela più pericoloso del Brasile. Molti analisti pensano che il futuro di Hugo dipenda dal prezzo del petrolio: se scendesse sotto i 50 dollari al barile, indicati dallo stesso presidente come limite invalicabile, i conti potrebbero saltare, trascinando giù anche lui.
Per l’Italia, al momento, il problema più grave è l’esproprio dei pozzi dell’Eni a Dacion. La compagnia petrolifera rischia di uscire dal paese, perdendo ogni speranza residua di partecipare allo sfruttamento dei grandi giacimenti dell’Orinoco.
Per gli Usa, invece, il dilemma è come gestire questo nemico dichiarato, da cui importano il 15% del loro greggio. Il portavoce del Dipartimento di Stato Sean Mc Cormack ha detto: «Speriamo di avere una relazione positiva e costruttiva con il governo venezuelano». Questa sembra escludere progetti modello neocon di cambio di regime. Il Council on Foreign Relations ha appena pubblicato uno studio, in cui suggerisce un approccio pragmatico: ignorare per quanto possibile gli eccessi di Chavez; evitare di trattarlo come un membro «dell’asse del male», perché ciò lo rafforza; e concentrarsi sul business bilaterale. Ma sarà una via praticabile, se Hugo chiederà a Fidel, Zapata e persino Cristo, di aiutarlo a rivoluzionare l’America?