Chavez, il Robin Hood del petrolio espropria anche l’Eni

Il presidente venezuelano Chavez continua la sua rivoluzione, espropriando i pozzi di petrolio gestiti da compagnie straniere come l’Eni, e investendo i profitti del greggio all’estero per farsi alleati.
Caracas è il terzo produttore dell’Opec, con 2,6 milioni di barili estratti al giorno, e ritiene di possedere le più grandi riserve ancora non sfruttate. L’aumento del greggio ha moltiplicato il denaro nelle sue casse, facendo crescere i ricavi del 32% nel solo 2005, e Chavez ora lo usa per promuovere la sua «rivoluzione bolivarista» ed imbarazzare gli Stati Uniti. Le stime variano, ma si passa dai 16 miliardi di dollari spesi all’estero dal 1999 ad oggi, ammessi dallo stesso presidente, ai 25 miliardi calcolati dal Center of Economic Investigation. L’anno scorso, secondo la think tank conservatrice americana Heritage Foundation, Chavez ha fatto arrivare 3 miliardi di dollari in aiuti ai paesi vicini. Finanzia di tutto: dalle parate di samba in Brasile agli interventi chirugici per i poveri messicani.
Alcuni interventi, però, hanno un chiaro scopo politico. Il Venezuela, ad esempio, ha acquistato una grande quantità di titoli dell’Argentina, consentendo a Buenos Aires di estinguere il suo debito da 9,8 miliardi di dollari col Fondo Monetario Internazionale. Lo scorso inverno, poi, Chavez è andato a provocare il presidente Bush sul suo terreno. La Citgo, cioè la sussidiaria Usa dell’azienda nazionale Petróleos de Venezuela SA (PdVSA), ha venduto combustibile per riscaldamento a 8.000 poveri del Bronx con uno sconto del 40%. Stessi trattamenti di favore sono riservati a diversi paesi caraibici, fra cui Cuba, che ripaga fornendo medici e altri servizi a Caracas. Gli interventi si spingono fino all’Indonesia e ai finanziamenti dello sviluppo in quattro paesi africani.
L’obiettivo di queste spese, secondo gli analisti, è una specie di castrismo gonfiato dalla ricchezza petrolifera. Chavez si crea alleati e diffonde il suo credo populista, mettendo nello stesso tempo in cattiva luce gli Stati Uniti. Al momento, infatti, i suoi aiuti superano i 2 miliardi di dollari investiti ogni anno da Washington per lo sviluppo e la lotta al narcotraffico in Sudamerica.
I critici, come lo zar dell’intelligence Usa John Negroponte, sostengono che il presidente venezuelano «sta spendendo somme considerevoli per coinvolgersi nella vita politica ed economica dei paesi in America Latina e altrove, a scapito delle necessità del suo paese». Chavez risponde che mentono, perché nel 2005 lui ha versato 8 miliardi di dollari in un fondo per i programmi sociali del Venezuela, e quest’anno il contributo salirà a 10 miliardi. Questi interventi, secondo il suo governo, hanno ridotto la povertà al 30% della popolazione.
Per recuperare nuove risorse, Caracas ha cambiato anche le regole degli affari con le aziende straniere concessionarie dei suoi pozzi. Ora vuole che creino joint venture in cui la PdVSA abbia il 60%, e paghino tasse del 50%. Al momento 16 compagnie, fra cui Shell e Chevron, hanno accettato. L’Eni non ha firmato e nel fine settimana le autorità venezuelane hanno ripreso il controllo dei suoi pozzi di Dacion, che producono 60.000 barili al giorno. «Questa azione – ha commentato l’azienda italiana – è una violazione del contratto. Intendiamo offrire un periodo di tempo alla PdVSA per le compensazioni», prima di passare alle vie legali. Caracas ha risposto che andrà avanti per la sua strada e chiuderà la porta a chi farà causa.
La sfida è delicata soprattutto con gli Usa, perché il Venezuela è il loro terzo fornitore di petrolio. Chavez li accusa di aver sostenuto il golpe contro di lui fallito nel 2002, ha definito Bush «un asino e un ubriacone», e sospetta che Washington stia preparando l’invasione del suo paese utilizzando le Antille Olandesi come base. Questo mese e il prossimo il Pentagono condurrà esercitazioni navali nei Caraibi con una portaerei. Caracas teme che siano una prova generale, ma conta di difendersi con la rete di alleanze costruita dai suoi aiuti.