Chagall, l’artista nomade a cavallo fra due mondi

«Una camera quadrata, vuota. In un angolo, un letto sul quale sto io. Cala il buio. Improvvisamente il soffitto si apre e un essere alato scende con bagliore e fragore, riempendo la camera di un turbine di nuvole. Un palpito di ali che battono. Penso: un angelo! Ma non riesco a aprire gli occhi; c’è troppo chiarore, troppa luce. Dopo aver frugato dappertutto, si alza di nuovo in volo ed esce dall’apertura del soffitto, portandosi dietro tutta la luce e l’aria azzurra. Cala di nuovo il buio. Mi sveglio….». Nascono così i quadri di Marc Chagall – nel caso specifico L’apparizione – da frammenti di sogno e rapidi sussulti mattinieri. Uno stropicciamento di occhi, qualche immagine che resta appiccicata sulla pelle, poi, tutto si tinge di rosso o di blu, si mescola nel ricordo e riaffiora portando con sé personaggi che il pittore rende sincretici con qualche densa pennellata. Arrivano da lontano, affondano le radici nella tradizione russa e ebraica, nelle feste di strada dei baracconi, nella teatralizzazione della vita proposta da un innovatore come Mejerchol’d, e continuano a popolare le notti dell’adulto Chagall. Sono in tanti: l’ebreo errante, il violinista, la sposa, gli amanti (virati in pallidi rosa o in elettrici azzurri), la mucca, le isbe dell’infanzia, quella propria e di un mondo contadino che è in via di estinzione. Per tutta la vita, Chagall ha messo in scena sempre la medesima «figura»: l’erranza. La sua, quella del popolo ebraico, dei saltimbanchi scelti anche grazie al loro nomadismo, dell’attività onirica.
La mostra che inaugura oggi al Complesso del Vittoriano Chagall delle meraviglie (visitabile fino al 1° luglio, a cura di Claudia Beltramo Ceppi Zevi e la nipote del pittore Meret Meyer, catalogo Skira) conta su circa 180 opere che ripercorrono l’intera biografia dell’artista russo (morto quasi centenario nel 1985), con un forte nucleo di lavori a tema «religioso», o meglio improntati alla storia dell’ebraismo (in esposizione, anche L’ebreo in rosso, 1914-15, di san Pietroburgo). E a guidare in una lettura irta di simbologie c’è, in un video, un personaggio d’eccezione quale Moni Ovadia. È lui a insistere sul capovolgimento della tradizione, sulla «ribellione» di Chagall rispetto agli stereotipi. L’artista, infatti, ha ribaltato in ogni dipinto la negatività correlata all’esilio, raccontando con lo sguardo di un bambino la nostalgia, la lontananza, la memoria, i giorni di festa e quelli del lutto. L’esiliato non è solo l’essere spossessato di tutto, in perenne fuga, emarginato, piuttosto è colui che sperimenta, pur nella penuria e nella difficoltà, un territorio di libertà. Lo stesso che l’artista di Vitebsk applicò meticolosamente alla sua produzione pittorica. Non l’inseguimento di uno stile preciso, «d’avanguardia», ma un vero cocktail di reminiscenze della modernità, dalla poesia di Apollinaire e Cendrars al folklore dei lubok, fino alle ardite (s)composizioni cubiste, alle sinuosità matissiame o all’irrazionale gioco visivo proposto dai surrealisti. E nel gioco dei contrari, l’ebreo errante perde la condanna del suo essere un persecutore di Cristo, diventa un perseguitato e si riscatta nella magia, imparando a superare gli ostacoli del mondo terreno, magari volando sopra i tetti tra caprette e musicisti.
Anche quando si ritrae, Marc Chagall compare spesso capovolto: uomo dalla fantasia radicale, non accetta di camminare dove vanno gli altri («se sei pittore, puoi avere la testa al posto dei piedi, e resterai pittore…»). La sua temporalità procede spesso per sentieri poco logici, è dislocata, percorrendo una cronologia a salti, avanti e indietro, presente e passato. Un viaggio fiabesco che Chagall farà sempre in compagnia di Vitebsk, suo paese natale, oggi in Lituania, nonostante i numerosi spostamenti volontari o obbligati (Berlino, Parigi, Mosca e America, nel 1941, mentre in Europa i nazisti danno alle fiamme le sue opere). «Vitebsk – scrisse nel 1931 – è un paese del tutto a sé; una città singolare, infelice, noiosa. Una città piena di fanciulle che io, per mancanza di tempo e di spirito, non ho neppure avvicinate. Decine, centinaia di sinagoghe, macellerie, passanti. Era dunque Russia? Non è che la mia città, la mia, che ho ritrovato». E sarà sempre sopra i suoi cieli tersi che si troverà a «passeggiare» insieme alla amatissima sposa Bella.
In fondo, tutto questo entrare e uscire dalla realtà, Chagall l’aveva imparato dagli acrobati nomadi che si esibivano sulla piazza di Vitebsk e che aveva scoperto da solo, quando era poco più di un ragazzino. In seguito, bloccato a Mosca dalla Rivoluzione, realizzò una serie di pannelli per l’esordiente Teatro Ebraico del regista Aleksej Granovskij, allievo di Max Reinhardt: fu quello il primo omaggio al mondo delle fiere popolari che Chagall fece rivivere attraverso i tre saltimbanchi, eccentrici buffoni che intrecciano santità e allegria, come nella migliore tradizione teatrale ebraica.
Acrobati e clown non usciranno più dalla «pista» dei suoi quadri: finiranno in libri d’artista, in opere raffinate, alla fine rappresenteranno un vero e proprio autoritratto. Anche il trittico di tele di grandi dimensioni presenti in rassegna (uscite dai depositi del Centre Pompidou), Resistenza, Resurrezione, Liberazione, hanno una matrice circense: nascono dalle «macerie» di un precedente dipinto intitolato Rivoluzione (dipinto nel 1937, l’artista lo distrusse in un momento di disperazione di fronte all’espandersi del nazismo) che mostrava un Lenin a testa in giù, saltimbanco dei moti popolari.