Uno dei danni collaterali della sopravvivenza a sé stesso del governo Berlusconi, è il rischio che paralisi e confusione si trasferiscano anche nel campo di chi a quel governo si è opposto e si oppone. Già prima delle ferie estive dell’anno scorso sembrava spacciato il governo. Si era diffuso una sorta di tranquillo ottimismo, che ha portato per molti mesi a una vera e propria smobilitazione delle lotte. Il governo, pur in crisi, ne ha approfittato per andare avanti sulle pensioni, sulla scuola, sul mercato del lavoro, sulla devolution. Un altro anno di campagna elettorale probabilmente non salverà il governo, ma può produrre altri pesanti guasti. Di fronte a queste difficoltà la Cgil prepara il suo congresso. In questi quattro anni questo sindacato è stato al centro della lotta contro le politiche della destra. Questa lotta è stata parte determinante della rottura del blocco sociale che ha sostenuto la vittoria della Casa delle libertà nel 2001. Non è stato un processo breve e facile. Nel 1994 bastarono pochi mesi perché il mondo delle imprese togliesse la fiducia al presidente del consiglio. Il governo Dini realizzò poi una riforma delle pensioni, condivisa dai sindacati, i cui danni sociali pagano oggi soprattutto gli operai e le giovani generazioni. Il successivo governo Prodi realizzò poi quel «pacchetto Treu» che segna il primo grande dilagare della precarizzazione del lavoro, e che ha aperto la via alla Legge 30.
Nel 2001 la svolta berlusconiana della Confindustria fu più determinata, e infatti portò agli accordi separati con Cisl e Uil nel Patto per l’Italia e nei contratti dei metalmeccanici. Furono le lotte condotte da Cgil e Fiom, da sole, a mettere in crisi l’alleanza Confindustria-Governo e ad aprire la via allo sgretolamento del blocco sociale berlusconiano. In fondo si può ben dire che l’onda lunga del 23 marzo 2002 si è manifestata con il risultato delle regionali. Ora però siamo entrati in un’altra fase, e la Cgil non può adagiarsi sul risultato politico ottenuto, perché i guasti sociali di tanti anni di liberismo si stanno abbattendo tutti in una volta sulle vite e sulle condizioni dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati. Anche se si prefigura una svolta politica positiva, non ci sono segnali di una svolta sociale. Lo stesso sistema delle imprese che ha tolto la fiducia a Berlusconi, continua a perseguire una politica di delocalizzazione, precarietà, attacco ai diritti sociali. Se la politica va a sinistra, la società continua ad andare a destra, verso un ulteriore dominio del mercato sulla vita delle persone. E una parte della sinistra sembra ancora una volta appropriarsi di questa tendenza, riprendendo a parlare di buona flessibilità e privatizzazioni regolate. Su questo deve interrogarsi la Cgil nel suo congresso. Se riusciamo a sconfiggere la destra e la sua politica, andiamo avanti con il conflitto sociale o torniamo alla concertazione e alla politica dei redditi? E’ questa la domanda che sale dalle assemblee dei lavoratori e tra gli iscritti.
Naturalmente questa domanda va articolata. Si tratta di ragionare sulle attuali compatibilità, italiane ed europee. Un sindacato che voglia davvero far crescere i salari e ridurre la precarizzazione del lavoro non può accettarle. Si tratta di fare un bilancio delle lotte sindacali di questi anni e di coglierne la contraddizione tra forza politica e debolezza rivendicativa. La Fiom ha tentato davvero con la sua esperienza dei pre-contratti e della contrattazione diffusa di spostare gli equilibri con le imprese e di superare la gabbia del 23 luglio. Non sempre c’è riuscita, ma il valore di questa scelta dovrebbe essere riconosciuto almeno dalla sinistra sindacale, che si è sempre battuta contro la concertazione. Invece, paradossalmente, proprio dal gruppo dirigente di Lavoro e Società vengono gli attacchi più duri ed astiosi contro la Fiom. Sullo stato sociale, sulle pensioni, sulla scuola, sulla precarietà del lavoro, incontriamo non solo la necessità di mettere in discussione le ultime politiche del governo e delle imprese, ma di risalire a quelle precedenti, a quel liberismo temperato e concertato che al disastro attuale ha aperto la via.
Ma se la Cgil discute troppo al suo interno di scelte sindacali, non rischia forse di non entrare in sintonia con il confronto e con le scelte del centrosinistra? Qui c’è la questione delle questioni. Una fase dell’autonomia sindacale è finita. Quella fondata su un’antica distinzione di ruoli e funzioni tra partiti e sindacati. Oggi tutti si dichiarano autonomi, e la parola ha perso gran parte del suo significato. Il nodo per la Cgil diventa così quello dell’indipendenza, cioè della capacità di costruire il conflitto sociale indipendentemente dal quadro politico. Io penso che una svolta in questa direzione serva anche al centrosinistra, ove anche le forze più radicali non possono certo pensare di imporre dall’alto quel cambiamento sociale che è necessario. Ma anche se non fossimo proprio in sintonia con il dibattito politico, pazienza, la cosa non è poi così drammatica. Il futuro del sindacato è oggi legato alla sua capacità di riorganizzare il lavoro, di fondare su sé stessa la propria capacità di iniziativa, senza deleghe per nessuno. La Cgil deve rompere con la cultura dei «governi amici», senza per questo cadere nell’indifferenza politica. Come ha scritto il congresso della Fiom, si possono avere governi avversari, ma nessun governo è amico. L’indipendenza del sindacato propone la democrazia come fonte prima della legittimazione del suo operare. Questo vuol dire che senza il voto segreto di tutte le lavoratrici e lavoratori interessati, non c’è vera legittimazione contrattuale. Formalmente tutta la Cgil dà priorità alla democrazia sindacale, nella pratica però non è e non è stato così. Si firmano contratti senza far votare i lavoratori e si stipulano intese unitarie che non prevedono la decisione dei lavoratori. Quale sede, se non un congresso, deve sciogliere definitivamente queste contraddizioni?
Invece, prima ancora di affrontare il merito delle questioni, il confronto tra i gruppi dirigenti pare aprirsi sulla forma del congresso, se con un solo documento o con mozioni alternative. Mi paiono questi equilibrismi interni, aggravati dal fatto che accanto alla discussione politica, si sta sviluppando un’azione parallela, tesa a definire un «patto politico» che permetterebbe il ritorno alle componenti organizzate, senza verificarle con il voto. A mio parere questa, comunque motivata, sarebbe una regressione nella vita interna della Cgil. La positiva rottura operata dalla mozione di Essere sindacato fu proprio quella di imporre il voto degli iscritti sulle questioni di fondo. Si possono certo elaborare forme più avanzate di democrazia interna all’organizzazione, si possono esaltare le esperienze di categoria e territoriali, ma dando più e non meno potere di decisione agli iscritti. Il congresso della Cgil dovrà essere un forte congresso sindacale e non un percorso collaterale al confronto nel centrosinistra.