Fragilità. Il sintomo che comunica quest’ultimo direttivo nazionale della Cgil sul «terrorismo» e su come «difendersene» è inquietante.
Inquietante prima di tutto per la percezione di una fragilità in un’organizzazione sociale che ha ben 5 milioni e 600 mila iscritti. Insomma, trattasi di un «corpo intermedio» di grande consistenza (per l’invidia dei partitini attuali) radicato in tutto il territorio nazionale.
Perché allora questo sindacato sente il bisogno di dotarsi di un «Decalogo» interno – quando ha già uno Statuto di principi e regole – nel quale decalogo, per difendersi dal «terrorismo» si evoca la necessità di una rete di vigilanza, e si richiamano i militanti a comportamenti «etici»? Con formulazioni, come si vede, così ambigue da essere adatte a ogni bisogna, anche a contenere o scoraggiare piuttosto i conflitti sociali, rigettandoli per propria mano – più o meno consapevole – in ‘odore di terrorismo’.
Sulla paura, sul «perturbante», già Freud avvertiva della possibilità di una doppia ‘occasione’, positiva o negativa: l’una, come paura che ci avverte sulla ‘perfettibilità umana’ e dunque mette alla prova la nostra capacità – nella relazione con noi stessi e con il mondo – di un’azione di superamento e di creazione di nuovi equilibri; viceversa, il suo negativo rivela il fallimento della prova con una «paralisi del soggetto».
La Cgil sembra rinviarci proprio questas immagine di paralisi e debolezza del ‘negativo’. E ne è rivelatrice la reazione contraria di un dirigente Fiom come Giorgio Airaudo, segretario provinciale di Torino: «Mi colpisce la chiusura sulla propria pancia, perché anche il delirio del terrorismo si combatte solo uscendo fuori, nel mondo esterno, con una pratica integralmente democratica, non violenta, ma radicale».
Airaudo invita piuttosto a maggiore «umiltà» i dirigenti del sindacato, della Cgil, «ma anche noi della Fiom, perchè la nostra pratica è insufficiente». In sintesi, invita a guardare i problemi tutti interni al sindacato e al suo rapporto con i lavoratori, che poco hanno a che fare con il «terrorismo» – questione che può addirittura, perversamente, esimere dall’autoriflessione, come ci insegna il lungo ricorso, nella storia, al ‘nemico esterno’ per sfuggire al le proprie debolezze.
Una conferma all’urgenza di una riflessione, e azione, rispetto alla pratica sindacale giunge indirettamente da quel che mi dicevano pochi giorni fa alcuni giovanissimi delegati metalmeccanici: «Certo, la Fiom appare sulla scena come la punta avanzata nella Cgil, ma noi siamo a nostra volta contestati nei luoghi di lavoro, dove prevale una miscela pesante di rassegnazione e di rabbia».
C’è infatti, dietro lo schermo del «terrorismo», anche una più duratura, e perdente, attitudine del sindacato. I fantasmi di fine anni ’70 che il nuovo «Decalogo» della Cgil sembra improvvidamente evocare, suonano impropri. Ma un qualche parallelismo si può invece tentare fra quell’epoca e l’attuale, pur nelle differenze di contesto. Anche allora il sindacato accettò, in nome di non verificati «interessi generali», di sacrificare le conquiste delle lotte operaie; così come oggi la Cgil si è impigliata in una preventiva condivisione con il governo di centrosinistra sul «rilancio dello sviluppo», con i ‘sacrifici’ connessi.
La delusione degli anni ’80 evidentemente non è servita di esperienza a evitare le delusioni odierne già annunciate E in questo il sindacato è nudo di fronte a se stesso e alle proprie responsabilità – non c’è da evocare alcun fantasma sostitutivo.