Cervelli italiani in fuga nello spazio

Anche la ricerca scientifica adotta il precariato a vita. Ultima puntata

Viaggio tra i giovani e i meno giovani che hanno scelto la scienza come professione. Dagli astrofisici agli esperti di analisi della materia. Solo una cosa in comune: l’incertezza per il futuro

Precarietà. Privatizzazione. Sono queste le parole oggi ricorrenti nella ricerca italiana. Melania Del Santo, 30 anni, una laurea a Bologna e un dottorato in Francia, lavora all’Istituto di astrofisica nel «gruppo spazio», responsabile del telescopio innovativo Ibis, messo in orbita per scoprire i misteri dell’Universo attraverso le alte energie. Precaria da cinque anni, è appassionata del suo lavoro, ma non ha certezze: 1.450 euro al mese, ne spende 400 per un monolocale a Frascati, con un vecchio affitto, ci tiene a precisare. Il tempo passa, mi dice, e il precariato del lavoro rischia di trasformarsi nel precariato della vita. Nella stanza accanto (carte dappertutto, il ritratto di Lenin alla parete, fuori i vigneti dei Castelli romani) Francesco Polcaro, senior scientist di fisica cosmica, sostiene che ormai il precariato è una specie di struttura permanente, senza la quale l’astrofisica – un settore di punta della ricerca italiana – non potrebbe funzionare. Come nel gruppo di Melania, dove i precari sono sei su dieci.

Ricerche materiali

Emanuele Serra, 41 anni, specialista nelle ricerche avanzate sui materiali, è ancora precario dopo il dottorato in Inghilterra, e dopo aver vinto due concorsi. Cos’altro dovrebbe fare di più per vedere riconosciute le sue capacità? Sommessamente mi fa notare che i suoi colleghi tedeschi dopo due o tre anni d’esperienza vengono stabilmente assunti, e guadagnano circa il doppio. Qui siamo alla Casaccia, il centro pilota dell’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente (Enea): 188 edifici su 90 ettari di verde a 25 chilometri da Roma, un luogo accogliente a dispetto del nome nei pressi del lago di Bracciano. Dovrebbe essere l’anima della ricerca e dell’innovazione per lo sviluppo sostenibile del Paese, ma anche qui il segno è quello precarietà.

I giovani «atipici» del sindacato di base Usi/RdB protestano, e nel loro volantino chiamano in causa il presidente Rubbia: chiedono che per i 23 posti disponibili nel concorso in deroga al blocco degli organici siano adottati criteri non discriminatori nei confronti di chi, impiegato a vario titolo dall’Ente, assicura comunque la continuità dei programmi di ricerca. Che senso ha, per un ente pubblico, «dequalificare, in sede di ammissione a un concorso, l’alta formazione come i dottorati e le borse di studio?». E quale altra possibilità ha un giovane ricercatore di vedere apprezzate le sue qualità, se non quella di partecipare a un concorso pubblico?

La situazione è tristemente paradossale. Siamo il paese con il più basso livello di laureati in Europa (12,5% sulla popolazione di 25-34 anni contro il 36,7% della Spagna, il 36,1 della Francia, il 24,1 della Grecia), e in questo paese tutti sprologano sull’innovazione. Ma l’ente preposto all’innovazione e le istituzioni pubbliche, invece di valorizzare i giovani, li penalizzano e li escludono. Diciamo le cose come stanno: questa è una vergogna nazionale, e insieme una forma di stupido autolesionismo. Ci vorrebbe una reazione e un’iniziativa forte. Ma non c’è, e la politica volta la faccia dall’altra parte.

Alberto Calza Bini, da oltre 30 anni ai vertici della ricerca nel campo dei materiali e delle nuove tecnologie, una lunga esperienza all’estero, dice che i precari hanno tutte le ragioni, e che andrebbero sostenuti in tutte le sedi: per la tutela dei diritti loro, e per il presente e il futuro della ricerca, cioè nell’interesse del sistema Paese. «Tieni presente – aggiunge – che ormai non si indicono grandi concorsi dalla metà degli anni ottanta, e la ricerca pubblica senza ricambio è destinata all’estinzione». Le cifre che cita fanno impressione: su 1.418 dipendenti a tempo indeterminato della Casaccia alla fine del 2001, il 66% aveva più 46 anni, solo il 3% meno di 35. Poi si sono aggiunti i precari di ogni specie e denominazione, che portano il numero dei lavoratori a circa 2.000. Contrattisti, assegnisti, borsisti, ex cococo delle più svariate tipologie, dipendenti di ditte che lavorano qui con progetti esterni finanziati con fondi dell’Unione europea, e altro ancora. Un labirinto giuridico-amministrativo da far uscir di senno Pico della Mirandola, in cui l’unica cosa chiara è la precarietà e la svalorizzazione del lavoro.

I soldi non ci sono

Come mi fa notare Carlo Postiglione, responsabile del sindacato ricerca della Cgil regionale, ormai «in tutti gli enti si assiste all’enorme aumento dei precari, che vengono pagati il meno possibile a causa della limitazione dei fondi e delle spese per il personale». Qui all’Enea nell’83-84 avevano a disposizione 1.200 miliardi di lire, di cui 750 per la ricerca; poi sono scesi a 500; adesso a 350. Appena sufficienti per gli stipendi e le bollette. L’innovazione in queste condizioni sembra una chimera.

L’Italia – ci dice l’Istat – nel 2002 ha speso per ricerca e sviluppo l’1,16% del Pil e si colloca nettamente al di sotto della media europea, superata anche da Slovenia (1,53%) e da Repubblica ceca (1,22%). Ma attenzione: nonostante le critiche che rivolgiamo al settore pubblico, il divario è fondamentalmente a carico della spesa privata, in Italia inferiore al 50% della spesa complessiva, contro il 65% della media europea e il 75% di Stati Uniti e Giappone. Se poi consideriamo che l’85% della spesa privata viene effettuata dalla Fiat e da Finmeccanica, questo ci dice tutto – al di là delle chiacchiere – sulla capacità innovativa del capitalismo italiano. Ma se rendite e grandi patrimoni soffocano l’innovazione, demotivare le migliori energie non può essere un’arte di governo.

Oggi abbiamo meno di quattro ricercatori per mille abitanti, nettamente in calo rispetto a 10 anni fa. Siamo la cenerentola d’Europa, lontani anni luce dalla Finlandia, che è salita a quota 16 per mille. Berlusconi ha annunciato il research day commissariando i principali enti di ricerca, Tremonti ha istituito l’Iit («il Mit italiano»), ma nessuno si è preoccupato di indicare gli assi strategici del Paese sui quali indirizzare la ricerca. In compenso, il contratto dei ricercatori non si rinnova da 41 mesi, e almeno in questo caso i cinesi non c’entrano.

In realtà, la ricerca è il luogo dove la svalorizzazione del lavoro è massima, e provoca gli effetti peggiori sull’intera società e sul nostro futuro. La perdita che subiamo è doppia: in termini di mancati investimenti, e nella incapacità di impiegare per il bene comune le poche risorse che investiamo in formazione e ricerca. Alla resa dei conti, con la cosiddetta «fuga dei cervelli», siamo noi che finanziamo il differenziale competitivo degli altri. Splendenti sono il nanismo e la miopia non solo delle imprese, ma anche delle classi dirigenti.

Il boom dei ricercatori

E nonostante ciò, esiste nel paese un potenziale che può essere valorizzato e indirizzato verso obiettivi di qualità nell’economia e nel vivere civile, se è vero che per numero di pubblicazioni per ogni cento ricercatori l’Italia è ai primi posti nel mondo: 346, contro 269 in Europa e 204 negli Usa. A due condizioni, però, un’operazione di rilancio appare possibile. Che questo potenziale ancora vivo sia liberato dalle pastoie burocratiche e clientelari. E che si ponga fine alle privatizzazione, intesa anche come cultura del privatismo assoluto, che considera la ricerca una mera funzione dell’impresa, da finanziare all’occorrenza con i soldi pubblici, come sta scritto nel decreto berlusconiano di riordino dell’Enea.

Va rovesciata la visione gregaria e subalterna secondo cui la soddisfazione di una committenza pubblica e della società, locale o centrale, sarebbe solo uno spreco da eliminare: in questa visione la ricerca perde la sua autonomia e libertà, la sua coerenza progettuale, il suo ruolo sociale. Ma va anche messa a nudo l’inconsistenza di fatto su cui si regge l’ideologia della privatizzazione. Essa presuppone una domanda d’innovazione da parte delle imprese, che non c’è. Luciano Pilloni, fisico dell’Enea, lo dice in modo colorito: «l’attore principale, cioè l’impresa, non dà segni di esistenza in vita». A dire la verità, sono anni che il capitalismo italiano non innova, facendo pagare un caro prezzo alla ricerca e a tutta la società. E’ l’intero modello che non funziona, e perciò va cambiato.

Perciò occorre tenere in grande considerazione progetti come quello per la mobilità sostenibile e le tecnologie eco-compatibili di Arese, coordinato da Mario Agostinelli. Una novità che può aprire la strada a percorsi alternativi che guardino all’Europa. E non solo perché si parla di idrogeno, e di un rapporto originale tra ricerca, istituzioni e territorio, ma anche perché è un progetto che nasce da una spinta dal basso, in cui i lavoratori e i sindacati giocano un inedito ruolo non difensivo.

Per la stessa ragione è necessaria una nuova centralità della funzione pubblica, e una piena assunzione di responsabilità della politica. Il centro-sinistra dovrebbe avere un progetto nazionale per la ricerca molto concreto, con obiettivi ben selezionati. E se vincerà alle elezioni politiche, metta al punto uno l’eliminazione del precariato nella prima fase di governo. Sarebbe un segnale preciso, e un’iniezione di fiducia per le vere forze innovative del paese.