Cercasi accordo disperatamente. Il Wto vuole evitare il terzo scacco

Una Hong Kong insolitamente fredda si sveglia dopo la prima notte di durissime trattative nelle stanze del potere. Fuori dal Wto, nei parchi concessi dalle autorità, gli attivisti convergono per il terzo giorno consecutivo di mobilitazione articolata fra Victoria Park, dove si tengono i seminari delle organizzazioni contadine, e l’Harcourt Garden, dove s’incontrano l’Asian Migrant Center e il Migrant Forum, la rete sindacale dei lavoratori informali e gli ambientalisti di Friends of Earth International e di altre organizzazioni internazionali, il tutto sotto il patrocinio della storica associazione sud-africana Jubilee South, la prima a proporre l’abolizione del debito. Tema del giorno, i General agreement on Trade and Service meglio noti come Gats, accordi che mirano a regolare – ovvero a sottrarre al controllo pubblico e a liberalizzare – 12 categorie abbastanza vaghe da poter essere ampliate alla bisogna: affari, comunicazioni, edilizia, distribuzione, educazione, ambiente, servizi finanziari, salute e servizi sociali, turismo, sport e cultura, trasporti e un generico “altro”, tanto per essere certi che non rimanga nulla d’invenduto. Mentre fuori si prepara l’ennesima manifestazione, dentro al palazzo le trattative sono andate avanti per tutta la notte nelle cosiddette stanze verdi dove pare che l’Unione europea sia partita a testa bassa per sponsorizzare le ambizioni dell’agrobusiness e delle grandi corporation dell’acqua. Le superpotenze economiche – che il primo giorno hanno fatto sapere di non avere alcuna intenzione di toccare i sussidi all’agricoltura – in cambio della messa in vendita dei suddetti settori si offrono di riempire di dollari – come al solito virtuali – il pacchetto dell’Aid for trade, che si traduce “aiuto al commercio” ma è in sostanza una sorta di mazzetta legalizzata concessa ai paesi di- sposti ad abbracciare i diktat del Wto. Pare che nella notte il pacchetto di aiuti al commercio sia lievitato fino a toccare circa 15 miliardi di dollari (4 dai paesi del G7, 3 dagli Usa, 3 dal Giappone e 5 dall’Unione europea) che verrebbero elargiti da qui al 2010. Nel linguaggio paludato dell’Organizzazione si tratta di “assistenza tecnica” ai paesi in via di sviluppo che decidano di imboccare lo sviluppo targato Organizzazione mondiale del commercio abbattendo le barriere tariffarie, riducendo il sostegno alle produzioni nazionali e mettendo in vendita il sistema scolastico e quello sanitario. Se il ricatto sia destinato ad avere successo è tutto da vedere. Resta il fatto che, duole ammetterlo, il fronte del sud del mondo non è più compatto come a Cancun e si può dire che le varie alleanze nate intorno ai negoziati sull’agricoltura – soprattutto il G20 – siano in via di sgretolamento sotto i colpi dei patti incrociati, dei ricatti e degli ambigui aiuti al commercio. Decisivo in questo senso lo marcamento dell’India, interessata a favorire il settore dell’acciaio e dell’informatica a spese dei propri contadini, e l’asse Bush-Lula che sembra profilarsi all’orizzonte: un vero e proprio patto di non belligeranza sull’agricoltura con l’implicita promessa di regolare conflitti e contenziosi a casa, ovvero nell’ambito degli accordi regionali come il Mercosur e l’Alca. La disponibilità del Brasile, di cui si vocifera da giorni, e quella dell’India spezza il fronte che aveva vinto a Cancun e lascia praticamente soli i paesi Acp (Africa, Pacifico e Caraibi), i più penalizzati dallo stallo delle trattative sull’agricoltura (principalmente i produttori di cotone) e che l’approvazione dei Gats rischia di trasformare in un vero e proprio terreno di caccia per le multinazionali del nord del mondo.
Davvero difficile che questi paesi da soli riescano ad arrestare l’offensiva europea e a smuovere la silenziosa ma costante pressione del gigante cinese – l’unica delegazione del mondo che non ha ancora tenuto nemmeno una conferenza stampa – come è difficile che il conflitto fra Ue e Usa sui sussidi agricoli possa far saltare la firma di un accordo assolutamente necessario per l’usurato prestigio del Wto, che non può permettersi una terza sconfitta. Difficile ma non impossibile. A questo puntano i movimenti che sfilano per Hennessy Road, nella terza manifestazione – in tre giorni – dedicata appunto ai Gats. Questa mattina la polizia era più nervosa, ma i cittadini di Hong Kong sembravano meno spaventati, con i negozi aperti e centinaia di curiosi a raccogliere volantini e scattare fotografie. Fra loro, per la prima volta, anche i commessi dei centri commerciali con indosso le divise dei rispettivi negozi e gli operai, con l’elmetto in testa, che lavorano nei numerosi cantieri. “No deal is better than a bad deal” – ovvero Nessun accordo è meglio di un cattivo accordo – è la parola d’ordine condivisa da moderati e radicali. Lo gridano i tailandesi della Workers Democracy e gli americani dell’Hemisferic Social Alliance. Lo scandiscono, al ritmo marziale dei tamburi, gli immancabili coreani e lo cantano i migranti, i lavoratori informali, i pescatori e chi più ne ha più ne metta. A far saltare ogni accordo lavorano anche le organizzazioni non governative che fanno azione di lobby dentro al palazzo e che raccolgono informazioni sulle trattative che si svolgono lontano dall’occhio indiscreto delle telecamere. Quanto sia sincera la promessa di una maggiore trasparenza fatta appena ieri dal direttore generale lo ha dimostrato oggi lo stesso Pascal Lamy, disertando uno dei rarissimi incontri programmati per raccogliere richieste e critiche della società civile. Occasione, la consegna di una petizione con più di 135 mila firme raccolte da 740 organizzazioni internazionali in rappresentanza delle 60 milioni di persone che, nel pianeta, si oppongono al cibo geneticamente modificato. I leader
storici del fronte antibiotech – Vandana Shiva e Meena Raman dall’India, Josè Bovè e l’europarlamentare Caroline Lucas dall’Europa, cui si sono aggiunte Susan George e Alexandra Wandel di Friends of Earth – hanno atteso inutilmente Lamy per consegnargli la petizione e un cesto di prodotti biologici. Al suo posto si è presentato quello che Vandana Shiva ha definito un «anonimo burocrate, a dimostrare quanto sia basso il tasso di democrazia di un’istituzione che si permette d’ignorare l’opinione di 60 milioni di persone». Un’istituzione, ha rincarato Susan George «che si arroga il diritto di porre i propri accordi commerciali al di sopra della legge internazionale anche quando si tratta di salute e di ambiente. Al massimo – ha concluso l’economista – se proprio si deve riconoscere al Wto il diritto di imporre diktat sugli affari, nel campo della salute non può certo sostituirsi all’Organizzazione mondiale della sanità o alla Convenzione sulla biodiversità delle Nazioni Unite rispetto alle questioni ambientali»