Censura marxista sul cinema? Il solito anticomunismo

Cinema e politica: un tema che intriga, attuale, scottante, abitualmente eluso nei mass media e nell’insegnamento universitario, a stento visibile in qualche rivista specializzata, ignorato dalla cinefilia. Un quotidiano tra i più diffusi, il Corriere della Sera, l’ha dissotterrato, inviando Barbara Palombelli a intervistare oltre una trentina di registi di diverse collocazioni. Finora sono stati ascoltati Maselli, Zeffirelli, Faenza, Ozpetek, Avati, Jacopetti, Dino Risi, Cavani, Carlo Verdone,Virzì, Carlo Vanzina, Cristina Comencini, Argento, Squitieri, Olmi, Calopresti, Bernardo Bertolucci, Luchetti, Magni, Archibugi, Placido, Barbareschi, Suso Cecchi D’Amico, Amelio, Bellocchio, Rubini, Montaldo, Vancini, Damiani, Torre. I quesiti dell’intervistatrice devono essere stati generici. Rare sono state le voci che hanno impresso un respiro vasto alle considerazioni e ai ricordi, per non avvertire l’inadeguatezza di chi aveva il compito di condurre l’inchiesta, una giornalista che, priva di alcuna competenza in materia, proprio per questo era la più adatta a perseguire l’obiettivo prefissato di far emergere, secondo una linea orientativa permanente nel Corriere, il presunto settarismo e conformismo dell’ex partito comunista italiano e dei suoi intellettuali. Ma è vero che molti degli intervistati non hanno sollevato lo sguardo dall’ombelico. Sono affiorati vuoti di memoria. Ci si è dimenticati che ad amministrare le istituzioni culturali e la loro vita (la scuola, l’università, la radio, la televisione, gli enti pubblici) c’è stata a lungo la Democrazia Cristiana con il suo codazzo di alleati remissivi e restii a opporsi alle tentazioni illiberali. Ci si è dimenticati che un tentativo di clericalizzazione dello Stato e della società ha avuto luogo tra il ’47 e il ’57-’58, usando ogni mezzo: dall’occupazione alla esclusione di coloro che rappresentavano idee laiche, alla censura più brutale. Quest’ultima ha imperato sino al ’62, quando le forze del centrosinistra hanno provveduto a correggere profondamente una legge fascista del ’23, che nel ’45, all’indomani della Liberazione, il governo del Cln aveva rilegittimato con l’assenso delle sinistre incoerenti e poco lungimiranti. Uno di quegli errori madornali di cui poi si sono pentiti comunisti, socialisti ed ex azionisti, mettendosi alla testa di battaglie per riconquistare margini di relativa autonomia alla creatività artistica e alla dialettica delle idee e incontrando sodali nelle compagini di Il Mondo di Pannuzio, L’Espresso di Arrigo Benedetti, Il Ponte di Calamadrei. Questo è uno degli anelli mancanti nelle rievocazioni, una svista di non scarso conto giacché nel rapporto tra cinema e politica la questione della libertà, nelle sue molteplici implicazioni, è stata centrale e continua a esserlo. E se è un errore cancellare il punto di riferimento democristiano (vi sono incorsi parecchi tra gli intervistati), è logico che sia presente l’altro interlocutore incarnato dai comunisti. Il limite rilevato, a tal proposito, è che giudizi e stati d’animo hanno investito unicamente gli apprezzamenti sfavorevoli manifestati da quotidiani, periodici di partito o di area su film di questo o quell’autore. Sono rimbalzate doglianze e risentimenti non ancora smaltiti, un vittimismo che l’autrice ha stimolato ed enfatizzato e a cui più di un regista ha offerto il fianco, prestandosi a un gioco che aveva di mira – l’abbiamo capito o no, non conta – il Pci, ovvero il bersaglio con meno torti nei conflitti determinatisi, il protagonista che, insieme ai socialisti, più si è speso per combattere le sistematiche e sfacciate violazioni della carta costituzionale, smentita da un ordinamento legislativo in larga misura ereditato dal fascismo e tenuto vivo dai cosiddetti “moderati”. Nelle testimonianze raccolte ed elaborate da Barbara Palombelli si è palesata una tendenza alla riduttività, se non alla banalizzazione, di una realtà che non consente schematizzazioni. Nelle politiche del vecchio Pci si trovano costanti ma anche discontinuità, contraddizioni, e dal ’56 in poi v’è stato il moltiplicarsi di indirizzi in contrasto tra loro, che andranno accentuandosi nel decennio Settanta. Sentir parlare per sommi capi e con disinvoltura salottiera di critica comunista o marxista induce a sorridere non perché non sia esistita, o non esista ancora, ma in quanto la si disegna come se fosse stata a mezza via tra il braccio armato della Direzione del Pci e una entità monolitica e omogenea, là dove invece la varietà delle opinioni non è mai venuta meno. Neppure nel primo decennio dell’Italia repubblicana, che nelle file comuniste ha visto prosperare il dogmatismo e un filo sovietismo cieco. Un’attenta ricerca dimostrerebbe come i critici delle varie edizioni de l’Unità e gli altri dei giornali “fiancheggiatori” o delle riviste e dei settimanali valutassero film e spettacoli teatrali ciascuno a proprio modo, contrastandosi a vicenda.
Umberto Barbaro, ammiratore di Ossessione e di La terra trema, avesse ragione o no, si distanziava dai suoi colleghi e compagni nel ritenere che Senso di Visconti fosse un esempio egregio e nobile di arte illustrativa e di estetismo. Su tutto è accaduto che ci si dividesse, su Anni difficili e su L’onorevole Angelina di Zampa, su Le mani sulla città di Rosi e su Fuoco fatuo e Lacombe Lucien di Malle o sulla serie di Don Camillo, che nelle recensioni suscitava riserve e ad alcuni dirigenti del Pci “piaceva”, scorgendovi essi un auspicio, i segnali di un dialogo tra comunisti e cattolici, che è sempre stato una ossessione. Insomma, per essere una indagine in bilico tra ieri e oggi, quella del Corriere, è sbrigativa, impressionista. Il sospetto di uno strumentalismo strisciante non è infondato, trascende la corrività di certe sortite e asserzioni, investe le pagine culturali del Corriere puntualmente impegnate a rivestire di panni nuovi un amore inestinguibile: l’anticomunismo. Nessuna
domanda, infine, è stata posta sul presente, sui legami che si delineano tra cinema e politica in un momento in cui i tagli infedeli al Fondo Unico dello Spettacolo hanno acuito e aggravato una crisi di natura strutturale, che già aveva ridotto agli estremi l’attività cinematografica nel nostro paese. Questo silenzio è un controsenso, poiché il cinema italiano versa in condizioni che l’hanno ricondotto alle miserie e alle difficoltà dell’Italia postbellica, oltre ad essere minacciato da un ferreo processo di concentrazione delle risorse finanziarie attorno a tre fonti, Mediaset, la Rai, il ministero per i beni culturali. Una triangolazione, a cui è difficile sottrarsi, ma che richiede, se si hanno a cuore le sorti della democrazia, di essere regolamentata e riarticolata secondo criteri garantistici, nel rispetto di un effettivo pluralismo e dell’indipendenza dai centri del potere politico, dalle maggioranze parlamentari (ne aspettiamo una che abbandoni le lottizzazioni), dalla dittatura della pubblicità che incide sui contenuti narrativi e sulle forme espressive. E’ strano che su problemi come questi Il Corriere non abbia posto un interrogativo, uno solo, alle persone avvicinate. Forse è superfluo lamentarsi per le delusioni avute: ci sono giornali in pompa magna, ma anche occasioni volutamente perdute.