Nel dicembre scorso scrivemmo su queste pagine dopo la manifestazione di Monaco di Baviera, di fronte alla sede del Tribunale penale. Nel suo ufficio, in quel palazzo, il procuratore generale August Stern aveva firmato, poche settimane prima, l’archiviazione del procedimento a carico dell’ex sottotenente Otmar Mühlhauser, l’ultimo sopravvissuto tra gli ufficiali rei confessi che, nel settembre 1943, ordinarono la strage di Cefalonia. L’ufficiale nazista usciva dunque dal primo grado con una sentenza di proscioglimento e con il conforto derivante dal fatto che – smentendo le valutazioni con cui il Tribunale di Norimberga condannò a dodici anni di carcere il generale Hubert Lanz, comandante delle forze tedesche a Cefalonia – la giustizia tedesca faceva proprie le sue ragioni: ragioni criminali di chi considerava i militari italiani della divisione “Acqui” «traditori paragonabili a disertori», vigliacchi voltagabbana schieratisi dalla parte del nemico e quindi indegni del trattamento riservato ai prigionieri di guerra. Anzi, peggio dei disertori di guerra tedeschi, se si considera che a questi la legislazione tedesca ha concesso nel 2002 una (benché postuma) riabilitazione, definendo la seconda guerra mondiale «guerra di aggressione e sterminio».
Come si ricorderà, Stern aveva stabilito – e avrebbe poi confermato a mezzo stampa – che alla base dell’«omicidio colposo» imputato a Mühlhauser vi erano motivazioni «non vili», la viltà dei motivi costituendo un’aggravante che avrebbe impedito il proscioglimento e, quindi, l’archiviazione del procedimento. E perché mai non sarebbero state «vili» le motivazioni che mossero l’ufficiale nazista ad ordinare la fucilazione degli italiani? Per il semplice fatto – questa l’incredibile logica del procuratore Stern – che lo stesso imputato non le riteneva tali! In questo modo Stern aveva giudicato, assumendo il punto di vista degli aguzzini.
Tuttavia coltivavamo, al ritorno da Monaco, la speranza che quella nostra iniziativa di protesta, le interpellanze urgenti da noi presentate nei due rami del Parlamento italiano, la mobilitazione delle associazioni antinaziste ed antifasciste e l’impegno degli storici segnassero l’avvio di una svolta. A quanto pare, invece, quella giornata ha prodotto solo un po’ d’imbarazzo in chi, come Stern, sapeva di essere nel torto ma non era disposto ad ammetterlo. E qualche assai timida presa di distanza dalla sua sentenza da parte di alcuni esponenti del governo centrale tedesco e di quello bavarese.
La notizia di questi giorni è che quel tentativo di sollevazione morale e civile ha subìto una sconfitta: il ricorso presentato contro la sentenza Stern da Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, uno dei circa seimila militari italiani trucidati dalla Wehrmacht nel settembre 1943, è stato infatti respinto dal procuratore Musiol, il magistrato subentrato a Stern nel processo contro Mühlhauser. Smentendo in parte Stern, Musiol ammette ora che l’esercito italiano agì secondo un principio «di fedeltà alle istituzioni nazionali». Ma sull’essenziale conferma il suo predecessore, ribadendo che le ragioni che guidarono i soldati tedeschi nell’eccidio non furono «vili», poiché corrisposero alla «pura osservanza di un ordine», sia pure «criminale».
La giustizia tedesca ha perso una grande occasione. Poteva e doveva sconfessare il vergognoso esito del processo di primo grado. Il procuratore Musiol si è affrettato a comunicare alla coraggiosa signora De Negri il «profondo dispiacere per aver causato sentimenti di irritazione nei cittadini italiani». Avremmo preferito parole non di rammarico ma di autocritica. E avremmo preteso – e pretendiamo – gesti coerenti con i propositi di chi afferma – è lo stesso Musiol – che per le azioni de sottotenente Mühlhauser «non è possibile avere comprensione».
Noi oggi – chiamando il Tribunale di Monaco e l’opinione pubblica tedesca ad un’assunzione di responsabilità – non possiamo «avere comprensione» per una sentenza anti-storica ed immorale. Se Marcella De Negri presenterà ricorso alla Corte d’Appello saremo al suo fianco perché, come abbiamo sempre ribadito, questa vicenda processuale non è un fatto privato. Chiama in causa la memoria di centinaia di soldati che, all’indomani del proclama con cui il maresciallo Badoglio dichiarò l’armistizio con gli Alleati, imbracciarono le armi contro il nemico nazista in un eroico quanto disperato tentativo di resistervi.
In questi giorni abbiamo dovuto registrare anche una seconda brutta notizia, che ci riporta al luglio del 1944 e chiama in causa, questa volta, scelte discutibili della magistratura italiana. Il 14, a San Polo, in provincia di Arezzo, il 274esimo reggimento granatieri della Wehrmacht rastrellò tutti gli abitanti del borgo, tra cui molti partigiani. 48 civili, tra cui una donna incinta di 8 mesi e tre bambini di 7, 2 anni e 20 giorni, vennero uccisi. Diciassette partigiani subirono la stessa sorte, dopo essere stati picchiati e torturati. Alcuni di loro furono fucilati, altri vennero fatti esplodere dopo essere stati sotterrati e aver riempito loro le tasche di esplosivo. Fu soltanto una delle innumerevoli stragi che accompagnarono la risalita dei tedeschi. Ebbene, lunedì scorso, dopo tre ore di camera di consiglio, il Tribunale militare della Spezia ha assolto l’ex tenente Herbert Handsk, unico imputato rimasto in vita tra i responsabili della strage. Responsabile, inequivocabilmente responsabile. Così come inequivocabilmente responsabile era Otmar Mühlhauser. Ce lo assicura la storia che, a San Polo come a Cefalonia, ha immortalato per sempre i volti degli assassini e quelli dei vinti.
Contro quella storia, registriamo oggi due decisioni inaccettabili, che riaprono ferite dolorosissime e nelle quali scorgiamo un limpido segno di tempi assai cupi. Si tratta di inammissibili manifestazioni di indulgenza contro cui si impone l’impegno di tutti i cittadini italiani, non dimentichi del sacrificio di chi diede la vita per restituire al nostro Paese la democrazia e consapevoli dei risorgenti pericoli che oggi la minacciano.