C’è una banlieue nel futuro dell’Europa

Le fiamme nella notte delle banlieues ci illuminano su quale tipo di futuro aspetta l’Europa. Le rivolte autunnali dei beurs, i giovani francesi di origine magrebina, costituiscono infatti un evento precorritore, almeno per il nostro continente. Perché di eventi simili negli Stati uniti c’è una tradizione quasi secolare, che risale ai riots razziali di Saint Louis (1917) e Chicago (1919) e arriva fino alla sommossa di Los Angeles del 1992, passando per le decine e decine di riots degli anni ’60. Anche lì, come in Francia, un gruppo di particolare discendenza etnica – lì nera, qui nordafricana – era ed è confinato in un’area degradata, priva di servizi, dove si concentrano miseria, disoccupazione e fallimento scolastico con i loro inesorabili corollari di tossicodipendenza e criminalità. Nei ghetti neri come nelle cités dortoir, la polizia è considerata una gang istituzionale. Negli Usa è chiamata proprio «la gang degli anglos» e, lì come in Francia, per decenni la «gang dei bianchi», ha sistematicamente evitato di entrarvi, delegando il controllo sociale alle gang stesse o, al meglio, affidandosi a movimenti politico-religiosi – la Nation of Islam (i musulmani neri) in America, gli integralisti islamici in Europa – per ristabilire una sembianza di ordine e neutralizzare gli spacciatori.

Altra somiglianza tra i riots americani e le sommosse transalpine: come le jacqueries medievali, queste esplosioni si concludono senza un visibile esito politico, eruzioni saltuarie di un fiume di scontento che scorre sotterraneo, per un istante prorompe in superficie e poi riprecipita nel sottosuolo dell’insconscio sociale. Ciò non vuol dire che non vi siano esiti di lunga durata, di notevole portata politica, come per esempio negli Usa la fuga dalle città dei ceti medi bianchi dopo i riots degli anni ’60. L’unica differenza tra le due rive dell’Atlantico è una sorta di specularità, per cui negli Usa i ghetti urbani sono nei centri città, nelle inner cities, e i borghesi vivono nei suburbi, mentre in Europa i ghetti sono nell’hinterland e i ricchi vivono in centro. Alla faccia della tanto sbandierata «eccezione francese», la storia che ci raccontano le autunnali rivolte transalpine è così quella di una profondissima americanizzazione della società francese, e cioè la sua divisione in cittadini di serie A e cittadini di serie B: quindi la fine della cittadinanza universale. Contrariamente all’immagine distorta che tanti media hanno dato, i rivoltosi francesi erano appunto francesi, e non arabi, né algerini o marocchini. Esattamente come i neri Usa sono americani.

Negli Stati uniti questa divisione ha origine nell’indelebile macchia dello schiavismo: «Il ricordo della schiavitù disonora la razza e la razza perpetua il ricordo della schiavitù» (Alexis de Tocqueville) e ha portato a una società per così dire «neo-castatale»: la casta è una situazione definita alla nascita che né il salto di classe, né la riuscita economica possono cancellare. In India ci sono paria ricchi e bramini poveri, ma sempre paria gli uni e bramini gli altri restano. Così negli Usa, qualunque sia il successo, la ricchezza, la bravura professionale, un nero sempre nero resta.

In Europa la castizzazione della società è avvenuta nel secondo dopoguerra, attraverso le migrazioni transcontinentali. Il caso più emblematico è quello dei giovani turchi, nati in Germania, istruiti dalla scuola tedesca, ma che per decenni non hanno potuto avere la cittadinanza tedesca e che nel contempo, se tornavano in Turchia, erano trattati come stranieri e definiti dai turchi con un termine dispregiativo, gli «Alemanci». Ma questa castizzazione è stata accelerata e approfondita dalle politiche restaurative seguite ai movimenti degli anni ’60. In Francia il primo riot beur risale infatti già a 15 anni fa, all’ottobre 1990, quando a Vaulx-en-Véline, nella periferia di Lione, auto furono incendiate, centri commerciali saccheggiati.

In questi ultimi trent’anni la Francia ha lasciato crescere al suo interno ghetti di disperazione sociale inimmaginabili nel 1970: basta leggere le interviste pubblicate in quello straordinario libro che è La misère du monde, edito da Pierre Bourdieu nel 1993. E il film La haine è del 1995. Ma alla disperazione sociale il potere francese ha dato una risposta di pura ideologia: ha vietato il chador nelle scuole, dimenticando che fino agli anni ’70 nessuna donna o ragazza di origine maghrebina avrebbe mai voluto indossare il velo. C’è qualcosa di crudele, c’è un tratto alla Maria-Antonietta («Non hanno pane? Dategli croissants») in questa politica che nega un lavoro, chiude le porte a ogni futuro, ma impone una mise. Le rivolte d’autunno costituiscono perciò il primo dilagare di riots razziali nell’Europa continentale: in Gran Bretagna, dove l’americanizzazione è stata più precoce, i riots risalgono alla fine anni ’70: a Southall (1978), Brixton (1981, ’85, ’95), Liverpool (1981), Burnley (2001).

Le banlieues francesi ci mostrano perciò una castizzazione che investe tutta la società europea: in Italia vi sono italiani che non vengono riconosciuti come tali, esattamente come avviene in Olanda. Tutto dice quindi che le rivolte francesi sono solo l’avvisaglia di quel che succederà nel resto d’Europa, mano mano che crescerà una seconda generazione di figli di immigrati che non sono considerati cittadini a parte intera e a cui è precluso ogni futuro.