L’idea dominante all’interno dell’ala moderata dell’Unione in materia di gestione della finanza pubblica può riassumersi in due punti essenziali. In primo luogo, si ritiene che un indirizzo di ‘sana finanza pubblica’ – che azzeri il disavanzo e riduca il debito pubblico – allontani la prospettiva di un ‘declassamento’ del debito da parte delle agenzie internazionali di rating. In secondo luogo, si aggiunge un argomento di tipo giuridico-istituzionale, in base al quale i vincoli previsti dal Trattato dell’Unione Europea, relativamente al disavanzo e al debito, vadano rigorosamente rispettati. La conclusione è la proposta, già per la prossima finanziaria, di un indirizzo di politica fiscale restrittivo (che non può che significare tagli alla spesa corrente, salvo il caso di significativi recuperi di gettito fiscale tramite la lotta all’evasione) che riduca l’onere del debito pubblico. Poiché questi argomenti appaiono complessi e non fanno sufficiente presa sul pubblico, i moderati spesso ricorrono a un vero e proprio «mascheramento», buttando la questione sul piano dell’equità tra generazioni: dal momento che il debito pubblico costituirebbe un trasferimento dell’onere fiscale alle generazioni future, allora sarebbe giusto contenere oggi la spesa pubblica (diversamente pagherebbero «i nostri figli»). Si tratta di un’idea priva di qualsiasi plausibilità tecnico-scientifica. D’altronde se si fa valere l’assimilazione (in sé molto discutibile) dello Stato con la famiglia, si può giungere al risultato opposto per il quale, di norma, tanto più ricco è il padre, tanto più ricco è il figlio.
Che queste tesi siano prive di fondamento mi pare ormai chiaramente mostrato dall’appello degli economisti per la stabilizzazione del debito pubblico (si può leggere su www.appellodeglieconomisti.com). In più, un recente articolo di Augusto Graziani e Riccardo Realfonzo apparso su Liberazione dell’11 settembre 2006 illumina sulle cause effettive che spingono i moderati ad opporsi alle politiche di spesa pubblica in disavanzo. La loro analisi – lucidissima – porta a ritenere che tale opposizione sia fondamentalmente determinata dall’obiettivo di comprimere la domanda interna per riequilibrare la nostra bilancia dei pagamenti. Provo a sviluppare ulteriormente questa tesi.
Una politica di rilancio della spesa e dell’intervento pubblico, come quella prevista dall’appello, favorirebbe, come da Keynes in poi si sa, un aumento della domanda interna, nonché dei livelli di produzione e di occupazione. Questo processo porterebbe inesorabilmente a un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e quindi a una tendenziale crescita dei salari. In un’economia aperta agli scambi internazionali e fortemente dipendente dall’estero – è il caso dell’Italia – l’aumento della domanda interna ottenuto mediante l’espansione della spesa pubblica sarebbe in certa misura destinato a sfociare in un aumento della domanda di importazioni, con effetti poco significativi sui profitti delle imprese italiane. Insomma, almeno finché le imprese non riescono a migliorare la qualità delle esportazioni, l’espansione della spesa pubblica e la conseguente crescita del reddito potrebbe accompagnarsi a una riduzione dei profitti dovuta appunto alla crescita salariale.
Nello scartare una politica di rilancio della spesa a favore di una politica restrittiva le forze moderate dell’Unione rischiano di farsi portatrici degli interesse delle imprese che non hanno alcuna propensione ad innovare, e che quindi hanno tutto da perdere da una crescita della nostra partecipazione agli scambi internazionali.È forse opportuno precisare che quanto appena affermato non significa ignorare i possibili effetti degli incrementi della spesa pubblica sui profitti, soprattutto per quelle imprese di servizi che risultano al riparo dalla concorrenza internazionale.
Nelle situazioni nelle quali il principale problema delle imprese è recuperare i margini di profitto persi nella competizione internazionale (ed è, con ogni evidenza, la situazione nella quale si trova oggi l’economia italiana) – e soprattutto nelle situazioni nella quali le imprese non trovano altra via (p.e. innovazione tecnologica) per ottenere questo obiettivo – risulta loro conveniente domandare politiche fiscali restrittive. Il vantaggio è duplice: da un lato, riducendosi le importazioni, si riducono le quote di mercato interne detenute da imprese straniere potenziali concorrenti; dall’altro, e soprattutto, i margini di profitto vengono recuperati nel modo più semplice, ovvero mediante la strategia tradizionale e sicura della compressione dei salari. Adottare una politica fiscale restrittiva, come la proposta di finanziaria sulla quale lavora il ministro Padoa-Schioppa sembra fare, significherebbe assecondare interessi di parte. Non la più avanzata del Paese
* Univerisità di Lecce