Causa di servizio per i reduci. L’esercito si accorge dell’uranio

Importante sebbene tardiva, incompleta e lacunosa. La dichiarazione di ieri del capo di stato maggiore dell’Esercito, sulla necessità di garantire la causa di servizio ai soldati malati per colpa dell’uranio impoverito, è certamente importante. E’ la prima volta che Via XX Settembre ammette l’ipotesi che i “nostri” ragazzi si possano prendere la “sindrome dei Balcani” in seguito al servizio effettuato in missione.
Presentando, ieri, il rapporto Esercito 2006, il generale Filiberto Cecchi ha ripetuto, però, la filastrocca del nesso non ancora accertato tra esposizione all’uranio impoverito e insorgenza di tumori o leucemie. Potrebbero essersi ammalati, dice, anche per stress operativo o per le condizioni ambientali. Ma, vivaddio, avrebbero comunque diritto alla causa di servizio per potersi pagare le cure. «Di sicuro noi abbiamo fornito tutta la collaborazione richiesta, abbiamo consegnato i dati e le informazioni, non c’è stata alcuna reticenza: siamo i primi a voler chiarire», giura, prima di vantare le misure di prevenzione adottate, l’alto ufficiale all’indomani dei funerali della quarantaseiesima vittima, un sottufficiale di ventotto anni, salentino ma in servizio a Udine, reduce da due missioni in Kosovo negli ultimi due anni. A ucciderlo una rarissima forma di cancro.
«Sono lieta che il generale voglia riconoscerre ai soldati la causa di servizio», dice Lidia Menapace, presidente, per Rifondazione, della commissione d’inchiesta del Senato sull’uranio impoverito. Quanto al nesso causale con le malattie mortali, «è proprio quello che ci siamo impegnati a scoprire e rendere chiaro», riafferma la senatrice. «Se non si può trovare un nesso certo tra uranio e tumori – così come non è stato possibile neppure per il tabacco – non è vero nemmeno il contrario, che quel nesso non ci sia», ricorda Falco Accame, ex presidente della commissione Difesa di Montecitorio e presidente dell’Anavafaf, associazione per la tutela dei familiari di vittime arruolate. «In tutte le situazioni in cui non siamo certi che non ci sia pericolo – ricorda – si devono adottare norme di precauzione». Le prime sono targate Us Army, emanate il 14 ottobre del ’93 quando lo Zio Sam andò in Somalia e non voleva ripetere il dramma dei veterani uccisi dalla Sindrome del Golfo. In Italia, il primo documento sarebbe uscito solo sei anni dopo, nel ’99 quando il bubbone dei soldati ammalati o già morti era stato scoperto da questo e altri giornali. Gli stati maggiori, incalzati dalle associazioni di soldati e familiari, si trincerano dietro l’assenza di prove che quel documento del ’93 sia stato spedito dal Pentagono agli alleati. Così, per almeno sei anni (ma non è detto che le norme emanate siano applicate) i “nostri” hanno operato (e milioni di civili ignari ci convivono quotidianamente) senza protezioni nelle zone infestate dai proiettili all’uranio impoverito. In Kosovo erano italiani i soldati della forza multinazionale che operarono nel sud-est, territorio più colpito dall’Ui. E a chi avesse chiesto ai generali italiani come mai, a 40° all’ombra, i marines fossero sigillati da tute e mascherine, si sarebbe sentito rispondere che “gli americani, si sa, sono fanatici”.
Non solo, è noto agli addetti ai lavori un altro documento, stavolta della Nato, pubblicato il 2 agosto del ’96. Riguarda le protezioni in caso di bassi livelli di radiazioni ed «è impossibile che i membri dell’alleanza atlantica non ne siano venuti tempestivamente a conoscenza», spiega Accame. E’ una carta importante alla luce della richiesta di ulteriori indagini formulata dalla procura di Bari che, solo 48 ore fa, ha negato l’archiviazione della vicenda di una ventina di reduci dai Balcani, malati o deceduti per cancri o leucemie. «Non importa stabilire il nesso con certezza – ripete l’presidente dela commissione Difesa – che esista pericolo lo ammette anche il professor Mandelli». Il notissimo ematologo fu capo di una commissione scientifica istituita dalla Difesa nel 2000 e giunse a risultati che minimizzavano l’incidenza delle patologie sul personale all’estero usando criteri contestati da gran parte della comunità scientifica. Ma lui stesso, in un articolo su Epidemiologia e prevenzione dell’estate del 2001, ammette di non essere in grado di escludere che l’Ui possa essere causa di linfomi. «Le precauzioni vanno adottate anche se solo non si può essere “certi che non”», ribadisce Accame per il quale il riconoscimento della causa di servizio (16mila euro circa) è solo un primo passo. Cocer e Anavafaf chiedono sia concessa, indipendentemente dalla causa di servizio, la speciale elargizione di 25mila euro prevista dalla legge 308 dell’81.