Castro, La successione non è più un tabù

Sono ancora piccoli segni, que­sti che arrivano dall’Avana sulla possibile successione a Castro, e da parte sua lui, Fidel, ripete incrollabile che «un rivoluzionario non va mai in pensione». Però è an­che vero che gli slogan del Comandante sono ormai un rituale consumato, una sorta di formula ingessata ma priva di senso, mentre invece in un regime dove «non si muove foglia senza che lui lo voglia» è a quei «piccoli segni» che bisogna saper guardare per cogliere il valore reale di quanto sta accadendo: e allo­ra, la decisione dell’Avana di aprire ai giornalisti e ai diplo­matici stranieri la sessione di fine anno del Parlamento cu­bano, lo scorso dicembre, è stato un segnale che andava decrittato come un atto di forte potenziale politico – qualcosa d’importante dove­ve accadere, in quella anoma­la seduta. E così è stato.

Felipe Pérez Roqùe, brillan­te ministro degli Esteri, ha pronunciato la frase che spez­za la frontiera del tempo: «Noi dobbiamo avere la forza di preservare la nostra vittorio­sa Rivoluzione in un futuro nel quale si aprirà un vuoto che nessuno potrà colmare». Era l’annuncio della consape­volezza politica che il regime ha che Castro è comunque, anche lui, un uomo e che le leggi della natura non sono immodificabili nemmeno quando si è il Lider Maximo; ma era soprattutto un annun­cio di consapevolezza fatto esplicitamente di fronte alla platea del mondo, una sorta di proclama che doveva raggiun­gere direttamente tutte le capi­tali e tutti i media stranieri superando la rigida censura sugli atti ufficiali.

Dire quella frase, farla pro­nunciare da colui che è consi­derato il «delfino» di Fidel, convocare formalmente ad ascoltarla diplomatici e gior­nalisti solitamente tenuti fuo­ri dalla porta, ha davvero mutato la storia contempora­nea di Cuba. Castro ha quasi 80 anni, le notizie sulla sua salute sono contraddittorie ma comunque raccontano d’un vecchio uomo sempre più in difficoltà a governare la propria immagine pubblica; e se è pur vero che non esiste alcuna credibile ipotesi d’un suo ritiro a breve, tuttavia le parole di Pérez Roque squar­ciano il velo delle reticenze ufficiali e dei silenzi di regi­me, e propongono pubblica­mente il problema della orga­nizzazione della successione.

Oggi Cuba ha superato una parte dei suoi gravi problemi economici (la cui origine il regime attribuisce esclusiva­mente all’embargo americano ma che più credibilmente va ritrovata all’interno d’una ge­stione centralizzata del siste­ma); per quanto esistano tutto­ra fortissimi squilibri, cui la «dollarizzazione» ha contribui­to drammaticamente creando due società parallele, ormai gli investimenti turistici, e soprattutto l’aiuto energetico offerto dal Venezuela di Chàvez, hanno spezzato l’isola­mento dell’Avana consenten­do al vecchio Comandante di offrire un quadro di prospetti­ve che stanno aprendo una dinamica inimmaginabile fino a poco tempo fa. Il tasso di incremento del pil è stato, lo scorso anno, di un eccellente 11,8 per cento, e il budget di quest’anno offre un’indicazio­ne di spesa in crescita del 30 per cento.

Superato dunque l’affanno d’una crisi che attanagliava il sistema, il regime affronta ora il problema della successione. Dal punto di vista costituzio­nale non v’è alcun problema formale: successore di Fidel è suo fratello Raúl, 74 anni, primo vicepresidente della Re­pubblica e secondo segretario del parito comunista.

A questo punto della deriva cubana, nessuno credibilmen­te, forse neppure i più feroci tra i fuoriusciti che vivono in Florida, osa pensare a una fine di sangue del regime; la suc­cessione «naturale» a Fidel assicurerebbe invece un qua­dro di riferimento politico che promette l’assorbimento del trapasso in uno sfondo di stabi­lità, e però lascia aperte tutte le soluzioni possibili rinvian­dole a un tempo meno ango­sciato dal possibile cambio di regime. Il Dipartimento di Sta­to, anche per le pressioni della lobby cubana anticastristra,­ mantiene ufficialmente un at­teggiamento. segnato da qual­che ambiguità, e si dichiara «pronto ad appoggiare Cuba quando si presenterà la inevi­tabile opportunità di un cam­bio genuino». Questa «inevita­bile opportunità» è, natural­mente, il passaggio dei poteri di Fidel, ma né Condoleezza Rice né Bush pensano all’aper­tura d’un quadro di destabiliz­zazione in un tempo nel quale la crisi irachena assorbe ogni attenzione della Casa Bianca. Piuttosto, quello che appa­re sempre più credibile negli scenari del futuro è l’accetta­zione diffusa della successio­ne costituzionale, con un Raúl ministro della Difesa e in con­trollo pieno dell’apparato mili­tare dell’isola, ma – contempo­ranemante – con la creazione di una struttura di governo che già oggi lascia intravedere segnali d’una forte disponibili­tà a processi reali di apertura dell’economia, sia nelle politi­che di governo sia nella libera­lizzazione delle pratiche quoti­diane di vita (il piccolo commercio privato, la nascita d’una rete di produzione e vendita, la ripresa dell autono­mia dei servizi etc.). E’ in qualche modo un riaggiustamento del «modello ci­nese», e Fidel non ha mai nascosto l’entusiasmo che gli procurava la sua visita a Pe­chino, con la scoperta dei successi di quell’economia pur in un regime di forte controllo politico. Gli uomini di questa rivoluzione sono persino già pronti: il premier Carlos Lage, il ministro Pérez Roque, il presidente del Ban­co Central Francisco Soberon, il presidente del Parlamento Ricardo Alarcón. I primi due sono la nuova generazione della Revolución, «fidelista» ma pragmatista. Sono anche il futuro più probabile d’una vecchia rivoluzione che ora ha dichiarato pubblicamente il peso di tutti questi anni.