Castità politica per il sindacato

C’è chi dice no. Non solo al partito democratico, non certo per tradizione ‘antipolitica’, c’è chi dice no, e anzi teme, una eccessiva implicazione pur nella costruzione di quella sinistra in cui molti sperano dal Prc alla sinistra Ds, da parte del sindacato. Mentre su Firenze la Cgil si divide fra sostenitori del prossimo Partito democratico, e dirigenti legati piuttosto alla Sinistra Ds e alle sue sorti, il segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini, fa sapere che oggi non sarà al Mandela Forum ad ascoltare il discorso di Guglielmo Epifani, bensì a Milano, all’Assemblea nazionale della Rete 28 aprile (la sinistra Cgil che fa capo fra gli altri a Giorgio Cremaschi) dove parlerà della «autonomia del sindacato» e rilancerà la questione politicamente «centrale» del lavoro.
Ora, non c’è alcun dubbio su come la pensi Rinaldini. E l’azione del sindacato metalmeccanico della Cgil, prima e con lui, dal Forum mondiale di Porto Alegre alle battaglie sulla democrazia nei luoghi di lavoro – sostenuto dai giovani e acculturati tecnici, impiegati, operai della Fiom – fino alla manifestazione dello scorso 4 novembre contro la precarietà, su cui la Cgil nazionale improvvidamente pose il suo diktat, testimoniano una sintonia con i movimenti che in differenti modalità si battono contro lo stato di cose presente.
E’ indubbio che Rinaldini, Cremaschi, e la maggioranza della Fiom condividono la critica al Pd ribadita da ultimo ai Ds da Aldo Tortorella. Dice Tortorella: «Il fatto che la maggioranza di un partito che volle essere di sinistra sia stato portato a credere che si può essere di sinistra solo negando la parola stessa, non è un paradosso: è il risultato di un’opera di lunga lena in cui è stato presentato come “nuovo pensiero” un ritorno al passato, il pensare il liberalismo senza socialismo». Ossia annullare quel percorso che rese indissolubile nel pensiero critico e nelle lotte del dopoguerra, dal ’45 in poi, l’affermazione dei diritti sociali in uno con quelli civili e politici.
Ma per il sindacato c’è una questione che attiene squisitamente, in teoria e prassi, alla qualità della sua stessa sopravvivenza soggettiva. C’è il problema che si ripresenta eternamente ad ogni insorgenza di «governo amico»: la tentazione del sindacato di riferirsi ai rapporti con i partiti per «concertare» dall’alto, invece che ancorarsi nella condizione dei lavoratori, nella ‘democrazia’ del contrattare. Rischiando, nell’abbandonare questa concretezza, densa per altro di una cultura forte, di una tradizione di pratiche e risvolti simbolici, di rendersi muti per il timore di scontentare il «governo amico».
Fin qui può essere facile aderire, per alcuni che si sentono «di sinistra». Ma c’è di più. E a questo soccorra il monito di un ex grande segretario della Fiom, Claudio Sabattini, che raccomandava al ‘sindacalista’ un «voto di castità politica». Nel senso di dismettere il costume degli apparati sindacali di co-appartenere a un sistema di elite con gli apparati politici che esclude i lavoratori.