I media occidentali sono davvero volubili. Da campione dell’antiterrorismo e garante della stabilità capitalista Vladimir Putin è diventato, secondo l’Economist, “Vlad l’impalatore”, mentre Le Monde ricorda all’improvviso la sua dimestichezza con i “buoni vecchi metodi del Kgb”. A scandalizzare non sono stati i massacri in Cecenia né la ben nota insofferenza del presidente russo verso i media indipendenti ma l’arresto di un miliardario accusato, fra le altre cose, di frode ed evasione fiscale. Un patto di ferroQuando Putin prese il potere, nel 2000, annunciò ufficialmente che l’arrembaggio mafioso dell’era Yelsin era finito. Gli anni ’90 erano stati caratterizzati dalle privatizzazioni selvagge, ovvero dalla svendita di ogni bene pubblico con il conseguente arricchimento della vecchia nomenclatura e dei nuovi mafiosi, mentre il paese piombava nella miseria. Al di là delle intenzioni, però, l’ascesa al potere di Putin era fondata su di un patto di ferro siglato proprio con la nuova classe degli oligarchi: statevene fuori dalla politica e non verrò a ficcare il naso nei vostri affari. La scorsa primavera, però, il patto ha cominciato a incrinarsi. Molti degli oligarchi hanno cominciato a mettere il naso nell’agone politico, anche in vista delle elezioni parlamentari di dicembre. E fra i giovani miliardari Mikhail Khodorkovsky, che ora staziona in un carcere del Cremlino, è sicuramente quello che si è spinto più avanti di tutti nella sfida a Putin. Con una fortuna stimata l’anno scorso sugli 8 miliardi di dollari, del resto, c’è di che montarsi la testa. Khodorkovsky è il capo della Yukos, società che produce un quarto del petrolio russo e che, dopo l’acquisto della rivale Sibneft, è diventata il quarto più grande produttore privato di petrolio del mondo. Da qualche tempo Khodorkovsky aveva cominciato a criticare apertamente il presidente e a far sentire il suo peso nella Duma, il parlamento russo. Nel corso dell’ultimo anno non soltanto si è messo a finanziare due partiti dell’opposizione ma, in modo sempre più insistente, ha lasciato circolare voci riguardo a una sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali del 2008. Putin, che aveva già fatto sentire il fiato sul collo ad alcuni oligarchi di spicco scatenandogli contro la magistratura o costringendoli addirittura a prendere la strada dell’esilio – come Bors Berezovsky e Vladimir Gusinsky, entrambi attivi nei media – nei riguardi Khodorkovsky ha avuto la mano pesante: un arresto dimostrativo, con tanto di teste di cuoio che l’hanno letteralmente rapito per qualche giorno prima di consegnarlo alla magistratura. Rivoluzione d’ottobre? La resa dei conti fra due personaggi simili sarebbe di scarso interesse se il livello non fosse così alto e la posta in gioco così ingente. Stiamo parlando di una compagnia che quest’anno ha pompato più di un milione e mezzo di barili, una quota in grado di far sentire il proprio peso nel mercato mondiale del petrolio. La decisione di congelare il 44 per cento delle azioni della Yukos, sebbene estremamente sensata dal punto di vista legale, ha già fatto andare giù il mercato azionario moscovita e rischia di avere ripercussioni anche su altre piazze. Ma non sono soltanto le conseguenze – fra le quali una certa malcelata soddisfazione dell’Opec – a preoccupare gli occidentali e a trasformare Putin in un “impalatore”. Quello che teme l’ortodossia economica è che non si sia trattato soltanto di saldare i conti con un avversario politico quanto che Putin abbia in mente una vera e propria inversione di rotta, soprattutto a fronte dell’interessamento occidentale per Yukos – su cui hanno messo gli occhi ExxonMobil e ChevronTexaco – e per la privatizzanda Gazprom, sulla cui sorte Putin si è affrettato a rassicurare gli investitori. Che la Russia sia preda di un rigurgito di nazionalismo? Che Putin abbia, come si chiede Le Monde, “legittimamente deciso di assicurarsi un migliore controllo sulle ricchezze del proprio sottosuolo? ” La parolaccia – nazionalizzazione – osa pronunciarla solo il Financial Times in un minaccioso quanto apocalittico editoriale schierato completamente dalla parte di Khodorkovsky, dove vengono dipinte fughe di capitali e recessione. L’ipotesi sarebbe suffragata anche dalla cacciata di Alexander Voloshin, ex-capo dello staff e ultra-privatizzatore molto vicino a Khodorkovsky e, si dice, agli interessi di Washington. Perfettamente consapevole del rischio di finire sulla lista nera dell’ortodossia economica, Putin si è affrettato a rassicurare gli investitori garantendo che la questione Yukos verrà rapidamente risolta e che non ci sarà alcun cambiamento nel calendario delle prossime privatizzazioni. Le compagnie straniere hanno deciso di dargli fiducia: Bp si dichiara soddisfatta dei suoi investimenti in Russia mentre ExxonMobil e ChevronTexaco, hanno deciso di non commentare l’accaduto. Il che, nella presente situazione, è già un grosso regalo a Mosca. Ma se il capitale produttivo ha deciso di attendere, quello finanziario dà in escandescenze. Il congelamento delle azioni Yukos colpisce direttamente il Menatep Group, holding finanziaria con sede a Gibilterra che detiene il pacchetto azionario di Khodorkovsky secondo una strategia ormai largamente condivisa dai manager delle grandi aziende anche dalle nostre parti. Se dovesse risultare evidente che l’oligarca ha evaso per circa 600 milioni di dollari, a chi apparterrebbero quelle azioni? Al governo russo? Ma come fa un governo rifarsi contro un paradiso fiscale? Oltre al pauroso spettro delle nazionalizzazioni – cos’è, infatti, una confisca di questa portata se non una sorta di ri-nazionalizzazione? – il caso Yukos rischia di aprire il vaso di Pandora delle transazioni finanziarie internazionali, con tutto il corollario di paradisi fiscali, banche off shore, riciclaggio di denaro sporco e narcodollari. Un vero e proprio nido di vipere che nessuno, a parte qualche timido tentativo dell’Unione Europea, ha davvero voglia di provare a districare.