Carta bianca agli incendiari, e il Medio oriente brucia

Numerosi civili uccisi a freddo in Iraq dalle milizie sciite solo perché sunniti. Un crimine senza precedenti in Medio Oriente dalla guerra civile libanese del 1975-76, quando i miliziani falangisti fucilarono dei musulmani unicamente perché musulmani. Secondo le Nazioni unite, circa 6.000 iracheni sono stati uccisi solo nei mesi di maggio e giugno. Un centinaio di altri civili, questa volta nel sud dell’Afghanistan sono state le “vittime collaterali” dell’offensiva messa in atto dalle forze della coalizione, diretta dagli Stati uniti, per impedire il “ritorno” dei taleban. Gli attentati suicidi, fino ad ora inesistenti in quel paese, si stanno moltiplicando. A Gaza, un milione e mezzo di palestinesi è intrappolato fra l’offensiva dell’esercito israeliano e la decisione di congelare ogni aiuto diretto presa da Stati uniti e Unione europea. E nel Libano messo a ferro e fuoco dai bombardamenti indiscriminati delle infrastrutture, delle città e dei villaggi, l’escalation (per ora fermata dalla tregua) potrebbe sfociare in un conflitto regionale con la Siria e l’Iran, mentre il nord d’Israele è stato a lungo paralizzato dal lancio di missili di Hezbollah. Infine, la crisi che riguarda il nucleare iraniano resta aperta e Tehran minaccia di ritirarsi dal trattato di non proliferazione.
Un’estate ordinaria, tre anni dopo che, su una portaerei, il presidente degli Stati uniti Gorge W. Bush aveva annunciato la fine dei combattimenti in Iraq con un solenne: “Missione compiuta!” In questa estate 2006, il bilancio dell’apprendista stregone deflagra in tutta la sua ampiezza. Mai, dal 1967, il Medio Oriente ha conosciuto tante crisi brucianti e simultanee. Ognuna ha una logica propria, ma tanti fili le legano, ciò che rende più difficili le soluzioni parziali e che accelera la corsa verso l’abisso di tutta la regione. Chi ha cominciato? Molti commentatori non hanno dubbi. E’ Hezbollah che mira alla distruzione di Israele “è più in generale è il campo occidentale che si tratta di destabilizzare. Questa organizzazione e i suoi sostenitori non aspirano a niente di meno che a “istaurare una dittatura islamica universale”. Una simile analisi, che si impone ormai nel mondo mediatico e politico, raggiunge quella dei neoconservatori americani: una nuova guerra mondiale è incominciata. Michael Ledeen ricercatore all’American Enterprise Institut, la riassume così: “E’ una guerra che si svolge da Gaza a Israele attraverso il Libano, e da lì all’Iraq attraverso la Siria. I mezzi sono diversi, da Hamas a Gaza, a Hezbollah in Siria e in Libano e all”insurrezione’ dai molti aspetti in Iraq. Ma c’è un unico direttore d’orchestra dietro tutto questo, la mullahcrazia, lo stato fascista e rivoluzionario iraniano che ci ha dichiarato guerra da ventisette anni e che deve ora renderci conto”.
“It’s our war” (“è la nostra guerra”) proclama con fierezza Wlliam Kristol, uno dei principali ideologi neoconservatori. Di fronte a quella che sarebbe “un’impresa generale di destabilizzazione del mondo occidentale”, il governo israeliano di Ehud Olmert si trova nel “campo buono”. Il comunicato del G8 di San Pietroburgo, è stato firmato dalla Francia. Mentre il Libano crolla sotto le bombe, proclama che “Israele ha il diritto di difendersi”.
Chi ha cominciato? Il 12 luglio, un’operazione militare condotta da Hezbollah contro una pattuglia israeliana fa sei morti e consente all’organizzazione libanese di catturare due soldati. Un fulmine a ciel sereno? Ricordiamoci che le scaramucce sono frequenti, specialmente intorno alla zona contestata delle fattorie di Sheba, che l’insieme del governo libanese considera territorio occupato; che gli aerei israeliani violano ogni giorno lo spazio aereo del Libano; che il 26 maggio Israele ha assassinato, nel paese dei Cedri, un dirigente della Jihad islamica; che Israele mantiene in carcere dei militanti libanesi, tra cui Samir Al-Qantar (dal 1978), Nassim Nisr et Yahya Skaf (dal 1982).
D’altra parte, se l’azione di Hezbollah era illegale, come qualificare la distruzione sistematica del Libano intrapresa dopo, che ha preso di mira le infrastrutture civili, le città e i villaggi, e costretto oltre seicentomila persone a lasciare le loro case?
Secondo il diritto internazionale, con cui la “comunità internazionale” si riempie la bocca, tutto questo ha un nome: si chiama “crimine di guerra”. Il protocollo addizionale I del 1977 alla convenzione di Ginevra definisce chiaramente il principio di proporzionalità. Gli attacchi “sono proibiti se ci si può aspettare la perdita di vite umane nella popolazione civile, il ferimento di civili o il danneggiamento di beni di natura civile, sproporzionati rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che ci si attende”. Chi può pensare anche solo per un momento che l’obiettivo dichiarato – salvare due soldati – valga le molteplici distruzioni e morti provocati dai bombardamenti israeliani?
L’offensiva israeliana è comunque ben lontana dal riuscire. Hezbollah è il più importante partito libanese, è fortemente radicato nella principale comunità del paese, gli sciiti, e gode del prestigio di aver liberato il sud del paese nel 2000. Inoltre, dispone di 12 deputati in parlamento, è alleato di importanti forze politiche come quella del generale Michel Aoun, o del Partito comunista libanese, o del Partito nazional sociale siriano, è legato a personalità sunnite influenti come Oussama Saad o Omar Karamé, o maronite come Souleiman Frangié. Considerarlo come una “semplice pedina dell’Iran o della Siria” è fantasioso.
Anthony H. Cordesman, uno dei ricercatori più ascoltati del Center for Strategic and International Studies di Washington, poco sospetto di simpatie per l’islamismo, rileva: “Gli analisti e i giornalisti dovrebbero essere prudenti e attenersi ai fatti nel parlare dell’Iran all’interno della crisi attuale. Numerose fonti – comprese quelle ufficiali e di ufficiali israeliani – hanno cominciato a utilizzare la crisi libanese per trovare nuove ragioni di attaccare l’Iran (…) Il risultato è di trasformare sospetti e fatti limitati, in teorie del complotto. I servizi segreti americani non hanno alcuna prova che l’Iran domini o controlli Hezbollah, ma solo che quel paese è una fonte essenziale di finanziamento e di armamento di quel partito”.
Fra i primi bersagli dell’operazione di “autodifesa” israeliana, l’aeroporto civile di Beirut. La storia si ripete. Alla fine del 1968, quando il Medio Oriente non si era ancora ripreso dalla guerra del giugno 1967, la resistenza palestinese si stava organizzando. Il 26 dicembre 1968, il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), un gruppo radicale, attaccò un aereo della compagnia israeliana El Al sull’aeroporto di Atene, uccidendo un ufficiale in pensione. Uno dei membri del commando era originario del Libano e l’operazione fu rivendicata a partire da quel paese. Due giorni dopo, un commando israeliano distrusse 13 aerei di linea sull’aeroporto internazionale di Beirut.
Il consiglio di sicurezza condannò all’unanimità l’azione e chiese a Israele di pagare i danni, ma senza esito. La Francia dichiarò che il principio di “rappresaglia” era inaccettabile e il generale de Gaulle decretò l’embargo sulle armi destinate a Israele, rifiutando di consegnare 50 Mirage, già pagati dallo stato ebraico.
Il comunicato del Consiglio dei ministri francesi, l’8 gennaio osservava: “Abbiamo messo a paragone l’attentato di Atene contro un aereo israeliano e l’operazione contro l’aeroporto di Beirut: ma queste due operazioni non sono paragonabili. Ad Atene si trattava di un colpo di mano organizzato da esponenti di un’organizzazione clandestina. A Beirut, l’operazione è stata organizzata da uno stato con proprio materiale militare, in particolare dei Super-Frelon e degli Alouette di fabbricazione francese, contro postazioni civili di un altro stato”. E Parigi non esitò a chiamare in causa “le influenze israeliane (che) si fanno sentire in una certa maniera negli ambienti vicini dell’informazione”. In quel periodo, il gollismo non aveva peli sulla lingua.
Siamo entrati nel quarantesimo anno di occupazione, quella di Gaza, della Cisgiordania, di Gerusalemme est, senza dimenticare il Golan siriano. Malgrado le innumerevoli risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, malgrado le dichiarazioni rassicuranti – secondo la “road map”, sostenuta da Stati uniti, Russia, Unione europea e Nazioni unite, lo stato palestinese avrebbe visto la luce prima della fine del 2005! – in Palestina tutto peggiora.
Il 2005 non ha prodotto alcun progresso. Le autorità di Tel-Aviv definivano continuamente Arafat un “ostacolo alla pace”, ma la sua morte e l’arrivo di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non hanno portato Sharon a rinunciare alla sua politica “unilaterale”. Il ritiro da Gaza, l’estate del 2005, salutato dai responsabili politici e dai media come un “atto coraggioso”, ha dato un colpo mortale a quel che restava degli accordi di Oslo: il principio secondo il quale la pace passa attraverso il negoziato bilaterale. Per i palestinesi di Gaza, l’evacuazione non si è tradotta in alcun miglioramento della loro situazione, al contrario.
Mentre la colonizzazione prosegue e s’intensifica in Cisgiordania e il “processo di pace” si riassume in una frase nel comunicato della “comunità internazionale”, Hamas vince le elezioni del gennaio 2006. C’è veramente da stupirsi? Ma, per aver “mal votato”, i palestinesi vengono puniti, segnatamente dall’Unione europea la quale, con l’avallo della Francia, priva l’Autorità di aiuti diretti, contribuendo un po’ di più al crollo delle condizioni materiali delle popolazioni e allo sfilacciamento (delitement) delle istituzioni palestinesi.
E i razzi che cadono sulla città israeliana di Sderot e che partono da Gaza? Gideon Levy, giornalista di Haaretz, chiede: “Cosa sarebbe successo se i palestinesi non avessero lanciato dei Qassam? Forse Israele avrebbe tolto il blocco economico imposto a Gaza? Avrebbe liberato i prigionieri? Incontrato i parlamentari palestinesi e aperto negoziati? Sciocchezze. Se gli abitanti di Gaza fossero rimasti tranquilli come sperava Israele, la loro causa sarebbe scomparsa dall’agenda – qui e nel resto del mondo. (…) Nessuno si sarebbe preoccupato della sorte del popolo di Gaza se non si fosse comportato in modo violento.”
Il 27 giugno, a seguito di forti tensioni, tutte le organizzazioni palestinesi (eccetto la Jihad islamica) firmavano un testo che chiedeva una soluzione politica fondata sulla creazione di uno stato palestinese a fianco di quello di Israele e che limitava le azioni della resistenza armata ai territori occupati. Questo accordo apriva la strada alla costituzione di un governo di unità nazionale in grado di avviare negoziati di pace. L’indomani, l’esercito israeliano “ritornava” a Gaza, con la scusa del rapimento di uno dei suoi soldati, in realtà per “liquidare” Hamas.
Anche in questo caso, l’azione israeliana, con tanto di bombardamenti di centrali elettriche e di ministeri, di arresti di dirigenti politici e di distruzione di case, di civili usati come scudi umani, rileva del “crimine di guerra”. Il governo svizzero, depositario delle convenzioni internazionali sul diritto umanitario, il 4 luglio 2006, notava “che indubbiamente Israele non ha preso le precauzioni richieste dal diritto internazionale per proteggere le popolazioni civili e le infrastrutture”.
Guerra contro i palestinesi, guerra contro il Libano, due offensive che mostrano la medesima strategia: imporre una “soluzione” conforme ai soli interessi di Israele. Mai, da quarant’anni, la politica israeliana ha ricevuto un tale sostegno da parte occidentale: poche le voci ufficiali dissidenti, salvo quella del Vaticano, che si fanno sentire.
Il mondo arabo mostra un’altra volta la propria impotenza: gli stati alleati degli Stati uniti si sono mostrati incapaci di premere su Washington. Si sono accontentati, com’è noto, di denunciare anche loro Hezbollah e Hamas, giustificando così l’azione israeliana… Saoud Al-Fayçal, ministro saudita degli affari esteri, ha chiesto alle parti non arabe di tenersi lontane dal conflitto: non si rivolgeva agli Stati uniti, ma all’Iran…
Come nota l’editorialista del quotidiano panarabo Al-Hayat, Abdel Wahab Badrakhan: “Tutti gli arabi, dall’Atlantico al Golfo, sanno che la pace è morta e che sono stati ingannati una, due, migliaia di volte. Non sanno come uscire dal pantano in cui si sono cacciati. Allora, che lo vogliamo o meno, l’ultima parola è stata lasciata a quelli che qualifichiamo di ‘estremisti’ o ‘avventuristi'”. Hamas è nato nel 1987 a Gaza, dopo vent’anni d’occupazione israeliana, sull’onda della prima Intifada: Hezbollah s’è forgiato nella lotta contro l’occupazione, seguita all’invasione del paese dei Cedri nel 1982. Quale nuova organizzazione violenta sorgerà dalle ceneri del Libano attuale?

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traduzione Ermanno Gallo