Quando si deve muovere una critica ad un gigante del comunismo italiano come Pietro Ingrao, i commentatori politici soprattutto di sinistra hanno le gambe che fanno “giacomo-giacomo”, la penna tribolata e traballante, la tastiera del computer sconquassata e mal funzionante. Tutto perchè si cerca di non mancare di rispetto all’opinione del grande “vecchio”, uno tra gli ultimi rimasti, del fu Partito Comunista Italiano.
Nel giorno di Ferragosto, Liberazione ha pubblicato una sua lettera dove si afferma che a Cuba c’è una dittatura per nulla leggera e che Fausto Bertinotti e gli altri dirigenti del PRC male avrebbero fatto a inviare i loro auguri di pronta guarigione a Fidel Castro. Ingrao dice di essere certo da molto tempo che l’isola “rebelde” viva in un clima di “dura illibertà”.
Ci permettiamo di dissentire dal compagno Ingrao: mancanza di libertà, repressione del dissenso, autoritarismo. In pratica, il quadro che in poche righe viene dipinto da Ingrao è quello di uno Stato tiranneggiato da Fidel Castro, dove mancano i più elementari diritti di espressione libera del pensiero, della parola, di stampa, sociali, interpersonali e di espressione politica. Per aggiungere un tassello polemico alla già polemicissima lettera, lo storico leader della sinistra del Pci sottolinea che, da militante di Rifondazione Comunista sente “il bisogno di esprimere il proprio dissenso” e, continua, “ritengo giusto che si sappia che sulla situazione in atto a Cuba ci sono in Rifondazione rilevanti divergenze di opinione”. E’ la scoperta dell’acqua calda, poichè, almeno da un congresso a questa parte, è noto ai molti che seguono le vicende del Prc che la maggioranza del Partito è schierata su un criticismo a corrente alternata: sì ai valori della Rivoluzione, dicono Migliore, Giordano e Bertinotti, ma anche ai diritti civili che, secondo loro, sarebbero a Cuba gravemente compromessi da una politica governativa impostata sulla limitazione della libertà.
La più corposa minoranza del Partito, l’area “Essere comunisti” invece si schiera con Cuba e ne difende lo spirito rivoluzionario, le conquiste sociali e la lotta antimperialista contro il gigante americano e i suoi valvassini, valvassori e vassalli sempre pronti a votare “no” alla fine del “bloqueo” ultracinquantennale imposto con la legge Helms-Burton e prima ancora dal “democratico” presidente John F. Kennedy.
Quindi nel “Primo territorio libero d’America” regnerebbe un rigido regime dittatoriale, magari anche composto da una buona componente di polizia pronta a reprimere ogni dissenso, pronta a stroncare sul nascere ogni opposizione a Fidel Castro e al governo della Repubblica di Cuba.
Non sono mai stato a Cuba, ma ho molti compagni e amici che vi sono stati. Ho visto molti documentari, di differenti tagli giornalistici: marxisti, liberali e anche di destra, della destra peggiore, quella – tanto per essere chiari – che bene viene esplicitata dall’esultanza dei cubani fuggiti a Miami, che fanno certamente una vita migliore dei cubani rimasti a Cuba se per vita migliore si intende avere elettricità tutti i giorni, paraboliche, play station, computer ipermoderni, televisori al plasma e case indipendenti.
Ci sono settanta chilometri di oceano tra la Florida e la Repubblica di Cuba. Settanta chilometri che dividono non solo due Stati, ma due visioni dell’evoluzione sociale umana completamente differenti. Quella che c’è a Miami è imperniata sul rampantismo, sull’evoluzione del singolo a scapito del resto della società. Il mito americano, in poche parole. Si parte tutti dalla riga del “via”, ma poi, grazie alle meravigliose arti progressive del mercato capitalistico, solo pochi raggiungono la meta di costruirsi un’impresa: gli altri magari vi andranno a lavorare e, chissà per quale strana ragione chi lavora e percepisce un salario non riesce a fare la stessa vita di chi il salario lo “concede”. Quante volte mi sono sentito dire: “Non tutti possono essere ‘padroni’ “. E’ vero, infatti il padrone esercita un preciso ruolo nella società capitalistica: incarna una funzione, quella del governo della produzione che non è finalizzata allo sviluppo sociale e al soddisfacimento dei bisogni di tutti e ognuno, ma all’accumulazione progressiva di profitto e solo e solamente per sè medesimo. I dividendi dell’accrescimento della produzione se li spartiscono i soci azionisti, mica gli operai…
Dall’altra parte dei settanta chilometri di oceano, c’è un popolo che vive, invece, con una diversa concezione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Questa proprietà non può che essere volta alla soddisfazione delle necessità di tutti, così da salvaguardare i bisogni di ciascuno. Si chiama, se non comunismo, almeno “socialismo”. Le industrie e i centri produttivi non lavorano per arricchire le tasche di pochi cubani, ma per un popolo intero. Cambia dal profondo delle menti, nella radice stessa dell’impiego umano di forza lavoro, il concetto di produzione, di elaborazione delle merci che, indubbiamente, sono ancora merci ma che almeno nella loro fase di costruzione e di assemblaggio vengono concepite con un fine pubblico e non come strumento di circolazione nel mercato con il solo scopo di ingrassare le tasche di una persona sola o di una tavolo di amministratori delegati e finanzieri privi di ogni scrupolo.
Questo è un primo dato che differenzia Cuba dagli altri paesi “occidentali”, per primo il grande e “democratico” universo statunitense.
Ma andiamo, per un attimo, a cercare di capire il significato delle parole. Oggi usiamo i vocaboli con troppa disinvoltura. Ad esempio la parola “democrazia”. Cosa intendiamo per paese “democratico”? Forse gli Stati Uniti? Perchè se è così, si potrà anche dire che facciamo della semantica inquinata dal politicismo settario contaminato da un dogmatismo retrocomunista, ma dove è il “governo popolare” negli Usa? Forse nel loro sistema previdenziale e sanitario, per il quale serve sempre e solo la carta di credito e il conteggio dei dollari che si hanno in banca per ottenere cure e assistenza? Forse nella difesa dei diritti di libertà di parola, espressione e di stampa? Pietro Ingrao conosce, credo, Noam Chomsky. Credo, dunque, che sappia anche che il grande glottologo e scrittore americano è stato costretto a pubblicare i suoi libri oltre i confini degli Usa, proprio perchè il “potere” di Washington considerava scomodi i suoi giudizi sulla società politico-economica americana, sul suo governo e sulla sua fattezza complessiva nel rivolgersi ai 250 milioni di americani e agli oltre 50 milioni di indigenti che vivono – anzi, che “sopravvivono” negli Usa.
E’ forse questa una democrazia? Ingrao ci permetterà di dirgli che questa non è una democrazia, come non lo sono la Gran Bretagna o la Turchia o l’Iran. Come si può evincere, l’a-democraticità degli Stati è trasversale: va da Blair alle follie di Ahmadinejad, alle splendide prigioni turche dove “risiede” ancora oggi il nostro compagno Adbullah Ocalan, rapito – con il consenso della democrazia americana ed anche di quella italiana… – all’estero e trasferito vita natural durante sull’isolotto di Imrali, in un carcere dove è stato fotografato – lui, presidente del Partito dei Lavoratori del Kurdistan e, virtualmente, anche Presidente del virtuale Stato curdo – con dietro due fiammanti rosse bandiere con la mezzaluna bianca, in segno di spregio, quasi si fosse schiacciato con un piede uno scarafaggio, qualcosa di fastidiosamente esistente.
Caro compagno Ingrao, tutto questo è il prodotto marcio di un’economia di mercato che mette in competizione tutto e tutti. Lo sanno bene anche in Asia, dove, nel poverissimo Pakistan (ma dotato di notevoli armamenti… chissà da chi…!) si cuciono i palloni della Nike a mano.
E’ forse democrazia quella che c’è in Iraq? Esportata come una scatoletta di tonno. Esportata con le bombe, esportata a suon di missili. E’ forse democrazia quella di Israele? Uno stato che non ammette nessunissimo dissenso, che caccia in carcere anche le donne e i bambini che si battono magari con semplici sassi contro i carri armati, che schiaccia Rachel Corrie con un carro armato, che fa dei Territori occupati due immense prigioni, che costringe i suoi cittadini a vivere nella paura continua, nel terrore sistematico di veder saltare in aria negozi, caserme, autobus, palazzi.
Cuba non ha mai aggredito nessun popolo: sul suo territorio c’è una base americana, a Guantanamo. Lì sono rinchiusi, per volere dell’amministrazione americana, centinaia di persone che vengono trattate con la tortura – non lo diciamo noi, ma Amnesty International – in modo del tutto “normale” e non come eccezione, in beffa alle convenzioni dei diritti dei prigionieri sia politici che non.
Guantanamo è un lager, una vergogna dei tempi moderni della moderna democrazia americana: così come lo è stato Abu Ghraib e altre cinquanta prigioni in Iraq organizzate dai marines e sorvegliate anche da qualche truppa italiana.
E che dire delle prigioni segrete e dei voli altrettanto nascosti della Cia in Europa? Tutte boccate di “democrazia”?
Davanti a questo scenario desolante, Cuba è davvero un’isola felice. Un’isola dove forse non si potrà gridare che Fidel Castro è un “figlio di…”; ma del resto neppure da noi in Italia si può gridare che qualche nostro governante è un “figlio di…”. A Cuba, dice Ingrao, non è permesso organizzare il dissenso. Questo è vero se per dissenso si intende una sovversione del governo legittimamente al potere e che promuove uno sviluppo sociale da oltre quarant’anni. Da sola Cuba riesce a sopperire ai bisogni dei propri ospedali con l’autoproduzione dell’80% dei medicinali necessari. Non c’è a Cuba un solo bambino che muoia di fame. L’analfabetismo è quasi debellato e i campi vengono coltivati, vista la mancanza di energia elettrica dovuta al blocco unilaterale americano, con l’energia solare. Sono moltissimi i luoghi dove si sono sviluppate le tecniche di uso delle energie non derivanti necessariamente dal petrolio o dall’elettricità. Certo, Cuba soffre molto la mancanza di queste materie e, per questo, il “contratto” stipulato con il Venezuela bolivariano di Chavez è preziosissimo. Ma non ci sembra che i cubani siano così desiderosi, come alcuni compagni della sinistra italiana e anche del Prc, di veder finita l’esperienza della “revolucion”.
Speriamo che Pietro Ingrao possa ricredersi e riuscire a vedere come un piccolo popolo, ancora oggi, difende la socialità, la collettività della produzione e l’impostazione antimperialista e anticapitalista che si è dato volontariamente fin dai tempi del Moncada e di Santa Clara. Chissà cosa avrebbe detto Che Guevara delle parole di Pietro Ingrao…