Caro Cavallaro, il nostro sogno non è il “keynesismo realizzato”

Luigi Cavallaro ha replicato su queste colonne (vedere il numero del 19 settembre, “Il deficit di spiegazioni e la spiegazione col deficit”) a un nostro intervento sul manifesto, in cui contestavamo la sua interpretazione della ripresa europea. In quell’articolo entravamo pure nel merito delle posizioni espresse dai promotori dell’appello degli economisti promosso da Riccardo Realfonzo. Una iniziativa animata dalle migliori intenzioni, ma, teoricamente e politicamente, alquanto fragile. Non ci è stato possibile rispondere subito, ma le questioni sollevate sono numerose e importanti. Vale la pena tornarci sopra.
Andiamo per punti. La ripresa in corso. Cavallaro non ha colto il senso della prima metà del nostro articolo. Sì, il primo semestre del 2006 è andato bene. E tutto l’anno sarà meglio del previsto. A questo punto, vediamo che ci si appassiona ad una discussione su delle stime, per giunta provvisorie. Se si vuol fare una analisi congiunturale, lo si dovrebbe fare su un orizzonte più lungo, su dati con qualche omogeneità metodologica. E’ per questa ragione che abbiamo preferito l’ultimo rapporto semestrale dell’Ocse. Anche accettando a scatola chiusa i dati congiunturali delle varie fonti – spesso rivisti, e non di poco, dopo qualche mese – l’interpretazione della ripresa potrebbe comunque essere alquanto diversa da quella di Cavallaro. Prendiamo, a puro titolo di esempio, la Germania. Si può escludere nella sua ripresa l’effetto (temporaneo) della Coppa del Mondo? Oppure, sui consumi privati, si può escludere che l’annunciato aumento dell’Iva possa aver spinto (di nuovo, temporaneamente) all’anticipazione dei consumi? Il che spiegherebbe anche come mai le aspettative sul 2007 delle imprese siano alquanto pessimiste.

Quella di Cavallaro ci pare una forma di argomentazione che è non scientifica nello spirito, prima ancora che nella lettera. Non serve neanche a sostenere il punto centrale della sua tesi: non dà ragione del perché il moltiplicatore della spesa pubblica avrebbe registrato un ritardo temporale esattamente pari a quello da lui ipotizzato. Riprendendo una sua espressione, il ritardo del moltiplicatore di Cavallaro è «solo un’ipotesi, e nemmeno tanto ragionevole»: una ipotesi ad hoc. Bisognerebbe a questo punto andare ad una verifica econometrica, che per sua natura – ci si scusi il nostro scetticismo molto alla Keynes – è inconclusiva. Non ci pare abbia senso uscirsene con frasi generiche, che ci si può permettere sui giornali ma di cui non si capisce la portata analitica, del tipo: «non esiste in generale alcun motivo per escludere un ritardo nell’effetto moltiplicativo», oppure «è possibile che ritardi del genere si debbano mettere nel conto». Ci pare che, per un attimo, Cavallaro si accorga del ginepraio in cui si sta infilando, quando scrive: «sebbene le stime siano contorte e talora perfino contraddittorie, alcune cose, forse, possono essere dette». Se le stime sono stime, e contorte, e pure contraddittorie, non sarebbe forse preferibile tacere?
Su una base quantitativa ipotetica così ineffabile sembra un po’ precipitoso abbandonare l’idea consolidata che il modello tedesco, come di altri paesi, sarebbe ancora oggi, a pieno titolo e integralmente, neomercantilista. Imperniato, dunque, sul sostegno che le esportazioni nette danno ai profitti monetari. Anche a questo è dovuto il disavanzo esterno di buona parte dell’Europa, tra cui l’Italia. Noi crediamo che la svolta costituita da un sistematico e permanente impulso alla domanda interna europea sia ancora, purtroppo, di là da venire. Cavallaro, al contrario, vuole convincerci che il modello tedesco (e francese) sia diventato, all’improvviso, “keynesiano”, visto che c’è la ripresa. Che si basi, cioè, su quel poco di keynesismo passivo che viene dal peggioramento dei saldi della finanza pubblica di qualche anno fa.

Basta, peraltro, dare una occhiata al grafico riportato in questa pagina per farsi venire qualche brivido lungo la schiena. L’economia europea riparte regolarmente alla fine del boom statunitense, per poi crollare, incapace di propulsione autonoma, quando quell’economia entra in crisi. Che adesso, pur con il rallentamento netto degli Usa dovuto allo sgonfiamento della bolla immobiliare (che ha trainato i consumi privati negli ultimi anni, ed è stato sostenuto dalla politica monetaria) si sia entrati in un’altra storia è tutto da vedere. E potrebbe essere una verifica poco allegra per tutti. Se infatti si prolunga il grafico con le stime sul 2006, tenendo conto della frenata degli Stati Uniti e della ripresa europea, il grafico del 2005-6 somiglia in modo inquietante al 1999-2000. Se non sarà così, la spiegazione non starà comunque, principalmente, nel keynesismo passivo degli ultimi anni.

Cavallaro, ci pare, non si rende conto dell’ironia della situazione. Al convegno di un anno fa, poi raccolto nel volume Rive Gauche dalla “manifestolibri”, fummo noi a segnalare che il Patto di Stabilità era da tempo diventato, se mai era stato altrimenti (e ne dubitiamo), incapace di vincolare davvero i grandi paesi. Anticipammo pure che ciò non avrebbe impedito che il Patto fosse usato contro l’Italia, al di fuori di ogni pretesa razionalità economica, e per altri fini. Soprattutto con il centrosinistra al governo, e con il rischio di una egemonia al suo interno di una cultura social-liberista: la quale, per suo conto, vuole imporre comunque una “rivoluzione” nel capitalismo italiano dagli effetti sociali pericolossimi, oltre che dalla efficacia economica dubbia. E aggiungemmo che qualsiasi ripresa economica è in realtà dovuta sempre a forme, talora nuove e originali, di gestione attiva della politica economica (come p. es. il paradossale keynesismo finanziario statunitense), non certo ad un inesistente laisser faire.

Venimmo allora severamente rampognati. In pubblico, dove venimmo accusati di essere dei difensori del Patto, quando avevamo detto, e scritto, il contrario, e da sempre. E in privato, visto che la proposta di stabilizzazione era divenuta in certi circoli non solo un articolo di fede, che impediva di parlare della sostanza delle cose, ma un talismano in grado di guarire ogni malanno. Ora, Cavallaro riprende di fatto una parte di quella nostra tesi, e la riduce discutibilmente a spiegazione (unica) della ripresa europea, per il tramite di una lettura eccessivamente semplificata del keynesismo. Nella sua replica alle nostre critiche, non si accorge, peraltro, che il ruolo (limitato) dei disavanzi di bilancio “eccessivi” era del tutto riconosciuto nel nostro articolo, dove scrivevamo testualmente che «lo sforamento dei vincoli ha certo ridotto una recessione che sarebbe risultata insostenibile».

Il punto che ci divide da Cavallaro non è, a ben vedere, se il keynesismo del breve periodo abbia o meno insegnamenti da darci sul come funzionano le economie capitalistiche, e sulle politiche economiche reali. Non è difficile capirlo. Il keynesismo dell’articolo di Cavallaro, come si è visto, è in fondo poco più di un keynesismo dell’istante, fondato sulle stime e su moltiplicatori della finanza pubblica ad hoc. Quando Keynes ragionava in termini di breve periodo, si riferiva a qualcos’altro. A quella fase in cui l’investimento netto non si traduce, ancora, in un accrescimento della grandezza assoluta dello stock di capitale. A seconda del tasso di capacità utilizzato iniziale, questa fase può essere più o meno dilatata nel tempo. Tutto ciò è molto ragionevole. Non lo è non rendersi conto che è proprio il fatto che è la domanda effettiva a trainare la produzione a far sì che si possano determinare strozzature dal lato dell’offerta, della produttività, della competitività, e dunque un vincolo esterno e composizioni della produzione perverse – il che ovviamente è particolarmente rilevante nel caso italiano, e per la sinistra; e magari consentirebbe di dialogare con la cultura ecologista sui nodi di sostanza invece di salire in cattedra. Se la domanda, infatti, è stabilmente al di sotto di quella necessaria ad assorbire l’offerta potenziale, sarà quest’ultima, fuori dal breve periodo (di Keynes, non di Cavallaro), ad aggiustarsi. E questo discende, dritto dritto, proprio dal principio della domanda effettiva: non costituisce affatto una contestazione della cittadinanza scientifica della teoria keynesiana, come ci imputa Cavallaro. Significa semmai che bisogna abbandonare un keynesismo idraulico (o come fu efficacemente definito da altri, “pronta beva”) e riconoscere la possibilità, oggi, di una crisi simultanea del capitale (produttivo e finanziario) e del lavoro salariato (fabbriche che chiudono ed operai licenziati).

Il nostro non è un invito a non fare politiche della domanda. Figuriamoci. Si tratta semmai di capire che non è più, se mai è stato, pensabile “da sinistra” quella sorta di politica dei due tempi – prima politica della domanda (aumento della spesa monetaria), poi politica dell’offerta (ridefinizione della struttura della produzione) – che ci ripropone di fatto Cavallaro. E neanche è possibile dire «prima stabilizziamo il debito e liberiamo risorse: poi si potrà impiegarle per la crescita», senza dire come, dove e perché.

Il semplice stimolo alla domanda, se aumenta i profitti monetari, non si traduce affatto, meccanicisticamente, né in un aumento del livello di produzione e dell’occupazione, né in una composizione della produzione socialmente ed ecologicamente desiderabile. La politica della domanda deve essere declinata, da subito, con una politica dell’offerta molto diversa da quelle social-liberiste oggi in voga. Si richiede un intervento nella composizione della spesa e delle entrate, e un piano del lavoro, con un forte ruolo attivo dello Stato “dall’alto”, senza che il conflitto del lavoro e la democrazia nella rappresentanza sindacale “dal basso” siano visti come patologici, senza cioè suggestioni neocorporative. Tutto questo non è un “di più”, come in Cavallaro: intanto va bene scavare buche. E’ un sine qua non di una politica economica di sinistra.

Nel nostro ragionamento il disavanzo e il debito pubblico, salvo interventi correttivi, devono aumentare rispetto al Pil: inizialmente. In una fase temporanea e di transizione, è quello che infatti non può non accadere, se si vuole davvero intervenire per migliorare nel medio termine la qualità del sistema economico e invertire il declino, e quindi per far cadere quei rapporti successivamente. Politiche che intervengano sul denominatore, cioè che aprano ad uno sviluppo qualitativamente diverso e migliore, richiedono un finanziamento in disavanzo prima che i risultati possano vedere la luce, e danno luogo per questo ad un peggioramento dei rapporti di finanza pubblica prima che essi possano migliorare: il che dipenderà, evidentemente, dal contenuto di quelle politiche.

E’ quello che in teoria economica è talora chiamato “paradosso della produttività”. Se non si ragiona così, è facile essere infilzati dalle obiezioni di un Michele Salvati sul Corriere Economia. Ma lo si sapeva da molto: tant’è che noi lo abbiamo scritto un anno fa, e lo andiamo dicendo da anni. Su questo, abbiamo da dire, come sinistra corrente, qualcosa di diverso dalla vulgata corrente o dalla pura resistenza? Sulle politiche strutturali, siamo o no in grado noi di sfidare le posizioni moderate, di far derivare le politiche di bilancio da una diversa politica di sviluppo? Crediamo che la mera interdizione o la riduzione del danno ci salveranno dalle politiche economiche, non più neo-liberiste (come quelle del governo Berlusconi), ma anche liberiste e social-liberiste (dominanti e in fragile equilibrio nell’attuale governo, e che sono diverse tra loro, rovinose tanto le une quanto le altre)?

A Cavallaro questo appare come un semplice mutamento quantitativo, e si stupisce che noi, dubbiosi della sua “pistola” keynesiana, si invochi un “cannone”.

Ma qui non si tratta (soltanto) di un aumento quantitativo della dimensione della spesa, che pure è necessario. L’accento è (soprattutto) sulla natura qualitativa dell’intervento, che a valle giustifica lo sforamento di bilancio, temporaneo. Qualcosa, si badi, che la revisione del Patto di Stabilità del giugno 2005 potrebbe addirittura giustificare, visto che ammette infrazioni ai parametri dei saldi della finanza pubblica, se legate a politiche che migliorano la situazione strutturale nel medio-lungo termine.

Un equivoco del genere viene dal fatto che Cavallaro non comprende, ci pare, il quadro concettuale con cui operiamo, come è evidente dal suo arruolarci in un presunto “paradigma classico-keynesiano” che ci è alquanto estraneo. Mentre i promotori dell’appello fanno riferimento a una dubbia sintesi tra impostazione “classico-ricardiana” rimodernata, più keynesismo da diagramma a 45° senza incertezza e senza finanza, noi ci rifacciamo ad autori come Marx, Kalecki, Sweezy o Minsky. Il Keynes che ci interessa è quello più radicale nella critica al paradigma dell’equilibrio. E la nostra versione della teoria del circuito monetario non è ridotta al solo deficit spending tanto caro a Cavallaro, ma ha una forte ispirazione schumpeteriana.

Tutte posizioni teoriche che, dagli anni Settanta almeno, hanno indotto chi vi aderiva a nutrire un sano scetticismo rispetto al keynesismo “realizzato” dei “trenta anni gloriosi”. Oggi, quel keynesismo ci tocca sentircelo decantato, contro i “bocconiani”, come l’ultima frontiera dell’economia di sinistra.

Molte altre sono le questioni di cui dovremmo discutere con Cavallaro, ma abbiamo già abusato dello spazio del quotidiano e della pazienza del lettore. Ma una cosa almeno va ancora detta. Cavallaro dedica un breve cenno al dibattito su alcune proposte di reddito garantito svoltosi sul manifesto questa estate, un dibattito che altrove aveva definito cripticamente “divertente”. Cavallaro riesce nella missione, che avremmo giudicata impossibile, di attaccare le posizioni “antagoniste” che parlano di fase “cognitiva” del capitalismo in un modo che le rende quasi simpatiche. Cavallaro, infatti, ritiene che sia illusorio vedere il capitalismo odierno come vivo e vitale, e non invece come, citiamo dal suo articolo, «un malato attaccato alla macchina dell’ossigeno».

E’ questa una contrapposizione antitetico-polare, che va avanti da decenni nella sinistra italiana di lontana origine marxista. Da un lato, chi ritiene che il capitalismo si sviluppi senza crisi, ma dunque, visto che la crisi è sempre anche ristrutturazione, senza scomposizione della classe, spinto in avanti dalle lotte di una soggettività del lavoro comunque incorrotta (di volta in volta l’operaio massa, l’operaio sociale, il cyborg, il lavoratore cognitivo). Dall’altro lato chi gli oppone, in modo altrettanto unilaterale, una rinnovata teoria del crollo, secondo la quale il capitalismo è un morto che cammina. In entrambi i casi, il capitalismo sembra vivere, o sopravvivere, per autosuggestione.

A noi pare che sia difficile capire qualcosa della realtà del capitalismo contemporaneo se ci si culla nella fantasia che ciò che abbiamo di fronte sia un capitale moribondo. Coglie molto di più lo stato delle cose la frase famosa del generale Emilio Garrastazu Medici – presidente del Brasile durante la fase della dittatura, nel periodo della grande crescita della seconda metà degli anni sessanta-primi settanta – il quale, alla domanda del New York Times su come andasse l’economia, rispose candidamente: «The economy is doing well. It is the people who are doing badly» (L’economia va bene. E’ il popolo che se la passa male…).