Carlo moriva e Koizumi suonava il violino…

Sappiamo tanto del G8 di Genova del luglio 2001, non tutto. Poco sappiamo, ad esempio, di come vissero i “grandi” in carne ed ossa. Di quello che decisero poco importa, perché nulla – e ribadiamo nulla – produsse mai un solo risultato. Sappiamo però che presidenti e premier di Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Canada e Italia (più i rappresentanti Onu, Ue e qualche invito a tavola per selezionati governanti africani) discussero degli equilibri mondiali, con piacevoli diversivi, nel silenzio della “zona rossa” spopolata per la loro presenza. Ma cosa sapevano di quello che succedeva fuori? Che gliene importava? Dicono le cronache che fossero preoccupati, ma il meeting era la vetrina del “consensus” di quegli anni e quindi si preparavano al successo. Dovettero ricredersi il 20 luglio, con gli incidenti del “black bloc” della mattina, quelli provocati nel pomeriggio dal “blu bloc” (in particolare dai carabinieri in via Tolemaide) e poi l’uccisione di Carlo Giuliani.
Scriveva il giorno dopo Vittorio Zucconi, su Repubblica: «L’atmosfera dentro il nostro castello di spettri era di imbarazzo, per l’inutile carrozzone. I più onesti, come Jacques Chirac, hanno avuto il coraggio morale e civile di ammettere quello che era scritto sulla loro faccia senza il cerone della cordialità di maniera che “questo incontro è stato offuscato dagli avvenimenti” e si deve chiedere scusa, pubblicamente, come ha fatto lui, alla Genova innocente e martoriata (…) Tutti noi passeggeri del vertice che ha scoperto di non esistere più, le scandalose delegazioni di diplomatici e portaborse, giornalisti annoiati (4.300 da tutto il mondo senza uno straccio di notizia seria da dare), camerieri (1.200, accaldati a cambiare le teglie e i piatti) e mille poliziotti riservati a noi, ciondoliamo annoiati come si fa in crociera».
«Di quel che dicono Schroeder e Berlusconi importa soltanto ai loro portavoce. L’immagine vincente, schiacciante, non è la “cordiale stretta di mano”, non è il sorriso plastificato, è la Genova là fuori. Dentro, la questione è sapere se siano finite le deliziose acciughine alla ligure…».
Tra i più strenui difensori della necessità del multilateralismo per governare la globalizzazione, in quell’epoca c’era Romano Prodi, allora presidente della Commissione Ue e presente alla tre giorni. Su La Stampa, proprio il 20 luglio, Prodi aveva scritto un editoriale-appello dal titolo “Le tre ingiustizie” che si concludeva così: «La democrazia, sia essa locale o mondiale, è la continua ricerca della giustizia sociale a livelli sempre più elevati. E’ ovvio che non tutti sono entusiasti al riguardo: ma io credo valga la pena di lottare, mobilitarsi e difendere questa visione, in Europa e nel mondo, soprattutto contro quelle forze che occorre imbrigliare per impedire che la ricchezza di alcuni si alimenti della povertà di altri». In breve il pensiero del”attuale Premier era: credere nella globalizzazione in nome anche della protesta per gli ultimi.
Il giorno dopo, in un articolo di Repubblica, Prodi raccontava il suo stato d’animo: «Che cosa ho provato qui a Genova? Un grande dolore per la tragedia che ha colpito questo vertice, e anche una sorta di sgomento. Un senso di isolamento dal resto del mondo: noi qui nella pace e nella serenità un po’ irreale della zona rossa, mentre sapevamo benissimo che cento metri più in là stava succedendo il finimondo. E poi ho pensato a Genova, a questa grande città poco nota all’estero, alla quale questo G8 poteva fare tanto bene. Poteva essere un’occasione positiva…».
Quando a Fidenza, a margine di un incontro per la corsa alle primarie dell’Unione, Prodi rispose cortesemente ad alcune domande su come avesse vissuto il G8, raccontò questo spaesamento, questa distanza, l’essere “sequestrati” dal mondo reale. E ci fece in via confidenziale una rivelazione che da allora ci accappona la pelle. Immaginate le stanze del Palazzo Ducale di Genova, i potenti al tavolo, tutto il brulicare di uomini nelle stanze accanto che trattano dossier, preparano dichiarazioni, si occupano del contorno e del menù… Immaginate, fuori, le urla mille volte sentite nel video: «Oddio sparano… che fate! Bastardi… oddio l’hanno colpito…». I rumori dei botti, le urla, le sirene e quel corpo lì a terra col suo rotolo di scotch infilato nel braccio e il passamontagna zuppo di sangue. Ecco, in quel momento lì, cosa succedeva dentro il palazzo dei “potenti fuori dal mondo”? In quel momento ci ha detto Prodi – in maniera informale e colloquiale – “i grandi” stavano ascoltando Junichiro Koizumi, l’allora Premier giapponese, che suonava il violino. Non un violino qualunque, ma “il” violino, quel Guarneri del Gesù del 1743 usato dal grandissimo Nicolò Paganini e che il maestro genovese chiamava “il Cannone”. Koizumi è un grande appassionato di violini e un discreto suonatore – dicono – e il Comune di Genova gli concesse l’onore e il brivido di usare il più importante violino al mondo.
Forse è troppo, ma oggi è il 20 luglio, sono passati sei anni e ancora abbiamo qualcosa da imparare e da scoprire da quelle giornate che noi abbiamo vissuto oltre la “zona rossa”. Ma una cosa possiamo dirla? Koizuimi suonava il violino, Carlo moriva sparato. Non c’è altra immagine del distacco che passa dalla “governance” ai governati che quella sera non ebbero la sensibilità umana e istituzionale nemmeno per annullare la cena di gala.