Carlo Ginzburg è uno dei pochissimi storici italiani noti extra moenia: i suoi libri sono tradotti in molte lingue, insegna a Los Angeles, alla prestigiosa Ucla, è un visiting professor conteso: un intellettuale cosmopolita, anche per la sua formazione, per gli interessi e, aggiungerei, per gli ideali. Gli ultimi suoi libri sono raccolte di saggi, perlopiù già pubblicati ma, sovente, in sedi quasi inarrivabili: divenuti capitoli di libro risultano testi sostanzialmente nuovi. Questa sarebbe già un’ottima ragione per aprire con interesse i volumi (editi da Feltrinelli, dopo una “rottura” con Einaudi); quel che più conta, si tratta di libri traboccanti di stimoli, oltre che di sapere. Ginzburg incarna la figura dello storico inteso come “un tale che fa delle domande”, riportandoci alle origini dell’attività storiografica stessa, e che accomuna le grandi tradizioni. La Frage tedesca, la “domanda storiografica” crociana, l’histoire problème delle Annales, alla cui lezione il lavoro di Ginzburg ha sempre guardato con particolare empatia, benché sia difficile stabilire una filiazione da una sola corrente storiografica, o un solo maestro. Eppure, il filo dell’ormai lunga militanza sotto le insegne di Clio, del figlio di Leone Ginzburg – uno dei tre, a dire il vero – è nitido, pur se aggrovigliato. E quest’ultimo suo titolo, Il filo e le tracce. Vero falso finto, (Feltrinelli, pp. 340, euro 25.00) – che propone la parola “filo”, alludendo al mito di Arianna e Teseo, accanto a un’altra parola chiave del lessico ginzburghiano: “tracce” – è un nuovo tassello del mosaico di un lavoro apparentemente disordinato, ma connesso a un orientamento preciso, che, come l’autore ci fa capire, si è andato meglio definendo nel corso dei decenni.
La sua è una battaglia contro il relativismo, che in storiografia indica quegli orientamenti che tendono a attribuire ai frutti della ricerca nulla più che un valore letterario: la storia come mera narrazione, in sostanza, il che implica, dunque, una radicale revoca in dubbio del carattere “scientifico” della disciplina e, consequenzialmente, la perdita di senso dello stesso “fare storia”. A che serve, infatti, se non si assicura una qualche certezza in merito all’oggetto delle indagini? E a che pro, l’enorme dispiego di tempo e di energie che una ricerca seria implica (che certo non produce, se non in casi eccezionali, né gloria, né ricchezza, né potere), se non possiamo dire a noi stessi, prima ancora che al nostro pubblico: ciò che stiamo facendo ha un senso, al di là del personale piacere della scoperta e della scrittura?
Cionondimeno, Carlo Ginzburg è studioso troppo raffinato per accontentarsi di accomodarsi dentro la trincea di un ingenuo positivismo, che chiude il discorso con il canonico “la storia racconta fatti realmente accaduti”. Egli problematizza il quadro, e porta per mano il lettore nella vera dimensione del lavoro storiografico: la ricerca. Non del tutto a torto (ma non del tutto a ragione), egli osserva che ogni discorso sul metodo «ha valore solo quando è riflessione a posteriori su una ricerca concreta, ma non quando si presenta», e aggiunge, polemicamente: «ed è il caso di gran lunga più frequente», «come una serie di prescrizioni a priori». In realtà, le «prescrizioni a priori», ossia i trattati di metodo storico, nascono sempre da ricerche concrete, e provano a distillare l’esperienza sul campo, traducendola in discorso teorico. Il punto decisivo, che Ginzburg sottolinea, è che lo storico non ha mai in testa, bell’e pronto, il risultato. E che ogni vera indagine è fatta di tentativi, “errori”, nel senso letterale, dell’errare: aggiustamenti, ripensamenti, talvolta di ritorni: e spesso una penosa sensazione di tempo sprecato colpisce lo storico. Per un giovane che voglia porsi su questa strada, può essere confortante sapere che anche un grande storico ha provato le stesse sensazioni, è stato colto da dubbi, e il caso ha svolto un ruolo spesso decisivo nelle sue scelte.
Come si sarà a questo punto intuito, uno degli aspetti più apprezzabili del volume, che lo rende particolarmente godibile anche sul piano della lettura, è l’affiorare dell’autobiografismo; ma senza ostentazione. E’ come se l’autore, via via che espone le sue ricerche, sentisse il bisogno di dar conto del proprio coinvolgimento soggettivo nel loro procedere, negli avanzamenti, nelle stasi, nei ritorni, nelle riprese. Ci sono pagine di grande efficacia da questo punto di vista che potrebbero essere adottate da quei corsi di laurea che vogliono reclutare aspiranti storici: si veda, ad esempio, il racconto di come egli si ponga a studiare la stregoneria, partendo da tre faldoni trovati “per caso” nell’Archivio di Stato di Venezia; o il flash che ci illumina sull’ingresso nell’inesplorato archivio arcivescovile di Udine, che merita di essere citato: «Quando entrai per la prima volta nella grande stanza circondata da armadi in cui erano conservati, in ordine perfetto, quasi duemila processi inquisitoriali, provai l’emozione di un cercatore d’oro che s’imbatte in un filone inesplorato».
Fra i tanti insegnamenti, un altro vorrei porre in luce, che delinea bene la fisionomia dello studioso di “microstoria” (tra i pochi saggi noti del volume, c’è il bellissimo “Microstoria: due o tre cose che so di lei”, del 1994): l’idea che per comprendere una società sia più utile partire dalle sue manifestazioni anomale, piuttosto che dalla norma: «la violazione della norma contiene in sé anche la norma»; mentre l’inverso non è vero. Purché questo studio sia fatto in modo intensivo. Il che è un po’ la filosofia della microstoria, piccola non solo in quanto sono limitati, temporalmente o spazialmente gli oggetti della sua indagine, ma soprattutto perché attraverso la tecnica della descrizione densa, che va in profondità, comprendendo un caso particolare abbiamo elementi per intuire il quadro complessivo.
Il libro così si snoda tra streghe e sciamani, persecuzioni e amicizie, eretici e inquisitori, letterati e umili contadini, in un fitto dialogo tra la storia, ossia frammenti di ricostruzione di fatti (che sono spesso vicende di idee, di mentalità, di costume…) e la storiografia, cioè il confronto con altre impostazioni, prossime o lontane dalla propria. Uno dei capitoli per me più interessanti è dedicato al celebre falso “I Protocolli di Sion”: qui emerge con pienezza la straordinaria capacità di analizzare i testi e di “interrogare” i documenti, e anche una vicenda di cui personalmente credevo di sapere (quasi) tutto, apre, sotto il bisturi di Ginzburg, squarci assolutamente inediti. L’erudizione è tanta, ma tenuta a bada da un vigile spirito critico; il filo, qui, ma in tutto il volume, è quello che ci deve aiutare a «districare l’intreccio di vero, falso, finto», che, aggiunge l’autore, «è la trama del nostro stare al mondo». Anche qui, sembra che il nemico giurato del soggettivismo e dello scetticismo (di cui si veda in particolare l’illuminante capitolo 4. “Parigi 1647: un dialogo su finzione e storia”) , temperi la filologia con l’intelligenza. Il risultato è un libro affascinante, e, pur nella varietà di temi ed epoche, coeso, che forse non “si legge come un romanzo”, ma che in molte sue pagine procura altrettanto piacere, con il valore aggiunto della conoscenza. Insomma, un vero libro di storia. C’è da divertirsi, e da imparare: che non significa aggiungere dati, ma soprattutto individuare problemi, “fare domande”.