Le carceri italiane non sono mai state così vuote negli ultimi 15 anni. L’effetto «indulto», benché il governo non lo sbandiera ai quattro venti, si sente eccome. Al 31 agosto erano usciti 21.411 detenuti (più di mille le donne) ma i numeri sono in leggera e costante crescita mano a mano che i tribunali di sorveglianza applicano la clemenza decisa in estate dal parlamento. Dai 61.041 detenuti del 1 luglio si è ormai prossimi a quota 35-36mila a fronte di una capienza regolamentari di 43mila posti. Più del doppio, comunque, delle uscite preventivate in sede parlamentare dal ministero della Giustizia anche per l’interpretazione estensiva data nei singoli casi giudiziari dalle procure della Repubblica. La perenne «emergenza carceri» del nostro paese, dunque, è finita. E il tasso di recidiva dei beneficiari è ancora molto basso: intorno al 2 per cento: tra questi molti sono extracomunitari tornati dentro per mancata esecuzione dell’espulsione. Per «tranquillizzare» chi teme un’ondata di criminalità dovuta al provvedimento di clemenza basta pensare però che per i detenuti «normali» a fine pena quel tasso nei cinque anni successivi alla scarcerazione è prossimo al 75 per cento .
Ma a fronte di un simile enorme successo politico il governo per ora non risponde con altrettanta determinazione. Superato il primo scoglio legislativo del provvedimento di clemenza resta infatti tutta da compiere quell’azione politica e amministrativa che consenta di realizzare una detenzione corrispondente ai principi della Costituzione.
Il sottosegretario alla giustizia con delega alle carceri Luigi Manconi (Ds) ha iniziato una serie di incontri con i vari direttori generali del Dap per avviare il mantenimento e l’adeguamento dei nostri istituti al regolamento penitenziario varato dal centrosinistra nel 2000. Il prossimo vertice è previsto per il 20 settembre, in calendario anche una ridefinizione dei circuiti di pena e confronto con il personale.
Nelle carceri delle grandi città finalmente si respira, e alcuni istituti minori sono semivuoti: 9 detenuti a Giarre, Massa Marittima, Altamura, 4 a San Severo, 3 a Empoli e Locri, segnala il presidente di Antigone Patrizio Gonnella.
L’affollamento ormai non è più una scusa per procrastinare tinteggiature, opere murarie, adeguamenti sanitari e tecnici richiesti dalla legge, anche sei fondi per la giustizia scarseggiano e gli agenti di polizia iniziano a godere anni (alla lettera) di ferie arretrate per il super lavoro. Ma intervenire sulle carceri non è mai un provvedimento burocratico o architettonico, è un progetto politico che ha bisogno di fondi e attenzione. I tempi per l’abolizione delle tre leggi criminogene (Bossi-Fini, Cirielli e Fini-Giovanardi) e del nuovo codice penale della commissione Pisapia rischiano di essere quasi biblici. E’ al ministero e al governo dunque che spetta intervenire.
Soprattutto sui vertici dell’amministrazione penitenziaria. Aver prolungato l’incarico del capo del Dap Giovanni Tinebra fino ad ottobre è come aver allungato le ferie al sistema penale. Serve un nuovo responsabile ed è quasi incredibile che l’Unione non abbia ancora provveduto a indicare una persona di fiducia in un incarico di tale prestigio. Si dice però che la «quaterna» di nomi da inviare al Quirinale sia ormai definita. Nella girandola di voci si confermano «papabili» i magistrati Paolo Mancuso (già numero due del dipartimento), Carlo Fucci e Giuseppe Ayala. Una soluzione interna inedita, invece, sarebbe Emilio Di Somma, l’attuale vicedirettore.