Carcere, è tempo di amnistia

E’ tempo di amnistia. E’ giusto ed opportuno che oggi lo Stato rinunci alla sua pretesa punitiva, per due motivi: perché i governi degli ultimi anni hanno accumulato un arsenale di punizioni sproporzionate e disumane, incentrato sul carcere, foriero di un incremento della capacità a delinquere dei reclusi; perché una recente riforma ha sottratto alla magistratura il potere di adeguare le singole pene al caso concreto, impedendole di punire in maniera rispettosa del principio di uguaglianza-ragionevolezza.
Il primo aspetto è stato più volte esaminato e più volte è stata auspicata una ampia riforma che, da un lato, escluda la rilevanza penale di una serie di comportamenti non più contrastanti con la coscienza sociale del paese( si pensi alla completa legalizzazione delle droghe leggere); dall’altro, riduca la reclusione carceraria a ipotesi del tutto eccezionale, a cui ricorrere solo nei casi di estrema esigenza sociale.

Ci soffermeremo in questa sede sul secondo motivo, cioè sui limiti posti al potere del giudice penale, in quanto è stato finora trascurata la collocazione di questa riforma nel dibattito sull’auspicata amnistia.

Uno dei massimo obiettivi del governo Berlusconi è stato quello di limitare la libertà di valutazione del giudice. Ciò è avvenuto in relazione alla ricostruzione del fatto-reato: si pensi alla proporzione “presunta” tra offesa e reazione violenta nella riforma della legittima difesa; si pensi alla “presunta” destinazione allo spaccio del quantitativo di stupefacente superiore ai limiti tabellari.

Il massimo del contenimento della discrezionalità giudiziale è stato realizzato con la normativa della cosiddetta legge ex Cirielli, caratterizzata dal fervore punitivo contro i recidivi, che generalmente appartengono alle fasce sociali più emarginate. E’ interessante notare come questa parte della legge sia stata assolutamente ignorata dalla “cultura giuridica” di sinistra, che, sempre più governata da dilettanti del quarto potere, ha preferito presentare tutta la nuova normativa esclusivamente come iniquo strumento di salvataggio di personalità politiche. Nessun peso è stato finora dato alle norme che hanno riportato al ruolo cardine del sistema sanzionatorio la recidiva, cioè la ricaduta nel reato, creando così un diritto penale di autore, incompatibile con la cultura giuridica di un paese civile. Il marchio della dichiarata antisocialità del recidivo porta ad un aumento del peso punitivo in più momenti. Quando il recidivo è in prigione, è ammesso ai benefici penitenziari con maggiori difficoltà e restrizioni. Ma il momento in cui è maggiore il peso della nuova normativa è quello in cui il giudice deve stabilire quanto il colpevole deve pagare in termini di libertà per il reato commesso: per il recidivo il prezzo è più alto, perché deve pagare per quello che ha fatto e per quello che è stato. E in questo momento che si manifesta l’intolleranza del legislatore di centro-destra per la discrezionalità del giudice, ritenuta foriera di clemenzialismo.

La nuova normativa, infatti, prevede l’effetto aggravante della recidiva a scapito dell’efficacia attenuante di alcune circostanze previste dalla legge, impedendo al giudice di effettuare un pieno bilanciamento di pesi e contrappesi, affidato finora alla sua discrezionalità.

Oggi che questo potere è stato drasticamente ridotto, ci troviamo in questa situazione: è rimasto inalterato il livello altissimo delle pene previste per una vasta serie di reati; è stato tolto il potere al giudice di assicurare, attraverso parametri di discrezionalità, la prioritaria esigenza di una pena equamente commisurata al fatto e al suo autore; le tariffe, in concreto pagate in termini di libertà, sono aumentate a dismisura per i soggetti più deboli e bisognosi di recupero, andando a violare i principi di uguaglianza-ragionevolezza della pena, previsti dalla nostra Costituzione.

La Corte costituzionale, in una sentenza emessa nei primi giorni di giugno, ha manifestato di non essere indifferente dinanzi a tanta ingiustificata diversità di trattamento e ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo che escludeva dai benefici i detenuti che avessero maturato il diritto in epoca anteriore all’entrata in vigore delle norme più restrittive. Ha cominciato così a ritenere illegittimo un appiattimento del trattamento sanzionatorio per situazioni assai diverse, imponendo l’espiazione della una pena in maniera incompatibile con la rieducazione del condannato.

In attesa di nuove e più ampie decisioni della Corte costituzionale, il legislatore ha il potere di porre rimedio a questa iniqua situazione.

L’ aumento del peso punitivo dello Stato può essere controbilanciato da un intervento di clemenza, accompagnato da una riforma che escluda dal nostro ordinamento l’ ansia distruttiva nei confronti del recidivo. La riduzione dei carcerati deve essere frutto non di una spinta emotiva, ma di una strategia di fondo.

Le obiezioni avanzate da rappresentanti della cultura giuridica di sinistra sono assolutamente non convincenti, in quanto fondate sull’esigenza di inquadrare l’amnistia in un imprecisato progetto di riforma complessiva. La sofferenza sproporzionata e disumana inflitta ed eseguita su un numero sempre crescente di cittadini non può protrarsi in attesa di riforme che sono in preparazione da decenni.

C’è da ricordare che l’amnistia risponde anche a esigenze di politica legislativa connesse a mutamenti politici e culturali di ampio respiro.

Un buona prova che questi mutamenti si siano verificati con le ultime elezioni può venire proprio dall’auspicato provvedimenti di clemenza. Un’omissione, mal giustificata, costituirebbe un non programmato segno di continuità rispetto a un poco onorevole passato.