A Rossana Rossanda le assisi veneziane di Rifondazione proprio non sono piaciute. E sul “manifesto” di ieri le boccia senza pietà: poche righe per dichiarare, appunto, che si è trattato di “un brutto congresso” e che, soprattutto, è Fausto Bertinotti a portarne tutta intera la responsabilità.
Un giudizio che ci pare alquanto ingeneroso, oltre che politicamente nient’affatto condivisibile. Ma anche, certo, un’opinione autorevole, giacchè proviene da una delle pochissime teste pensanti della sinistra italiana, una delle poche capaci di visioni di lungo periodo. Da parte nostra, la replica, il confronto, la discussione sono perciò obbligate – ma anche fuori da ogni intento polemico.
Andiamo alla questione del metodo. Ovvero, dello scontro che si è consumato nel congresso sullo statuto, sulle nuove regole di vita interna, che sono state approvate da una maggioranza del 60 per cento, e non da una maggioranza “qualificata”, come avviene per esempio (ma non da sempre) nella Cgil. Scelta deprecabile, secondo Rossanda, e sostanzialmente autoritaria, che comunque renderà improbo il “governo” interno della nostra organizzazione.
Ora, si può convenire, in linea generale ed anche di principio, che una maggioranza del 75 per cento è migliore, e più auspicabile, di una maggioranza del 60 o del 62. E si deve dire, anzi, che l’antica aspirazione all’unità – alla più larga unità possibile – resta uno dei valori forti della politica: non recita in questo senso l’antica massima popolare per cui, sempre, “l’unione fa la forza”? O per cui “el pueblo unido jamas serà vencido”? Il problema, evidentemente, non è questo.
Non è neppure, mi pare, se il sindacato debba costituire un modello formale, al quale comunque bisogna uniformarsi (nulla, in questo senso, è più pragmatico di un’organizzazione come la Cgil, che fino a non molti anni fa aveva due sole componenti, quella comunista e quella socialista, compresa la funzione di “segretario aggiunto”).
Il problema, per un moderno partito politico, si può formulare così: quando in esso si produce un conflitto non banale, quando in esso si è dipanata una discussione democratica, serrata, intensa (che ha coinvolto tutto il corpo attivo, e non solo, del partito stesso), quando in esso si è tentato di comporre le divergenze, di metodo e di merito, e non ci si è riusciti, che cosa si deve fare? A quali regole si può o si deve far ricorso?
La risposta che la maggioranza di Rifondazione ha dato a questo non aggirabile quesito è stata, prima di tutto, una assunzione di responsabilità: anche rispetto alle scelte che andranno compiute nella prossima, densissima fase politica e sociale. Il “principio di maggioranza” è largamente imperfetto, e teoricamente criticabile?
Certo che lo è – come lo è la democrazia rappresentativa, e come lo è la sua essenza ideologica liberale. Ma quale altro principio poteva valere in un congresso che si è svolto su (cinque) documenti contrapposti?
Nel quale, non ci si è misurati su quisquilie: sono state messe in discussione (del tutto legittimamente) tutte le opzioni compiute in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi (dalla nonviolenza al rapporto con Prodi, dall’innovazione culturale alla nascita del partito della sinistra europea) ed è stata messa in causa la figura stessa del segretario, Fausto Bertinotti. Rossanda lo sa bene: se a Venezia avesse vinto il cartello delle opposizioni interne, oggi Rifondazione avrebbe un’altra linea politica, un altro segretario, un altro ruolo nella politica italiana. E la stessa politica italiana ne sarebbe uscita modificata, in profondità. Non sarà per questo che il congresso è stato vero, non scontato, importante? Anche aspro, certo. Anche amaro, in molti momenti. Ma consapevole di sé, e perciò bello, pieno di speranze e di emozioni – come quella regalata da Pietro Ingrao, con la sua adesione così intensamente motivata (la lotta alla guerra, al terrore, alla violenza).
La vicenda dello statuto del Prc, dunque, non può esser sottratta da questo concreto contesto, né esser sovraccaricata di significati impropri: su di essa, anche dentro di essa, è precipitato un conflitto politico che si è rivelato – finora – non mediabile. Chiedo a Rossana Rossanda: perché deve considerarlo soltanto sotto la specie della patologia? Perché la dialettica conflittuale è in generale il sale della terra – tanto da diventare spesso la fonte dell’innovazione e della ricerca ricca – e si fa “insana” quando si determina all’interno di un’organizzazione politica? Perché la funzione di una leadership politica (nel suo insieme, non solo nel suo lato leaderistico) dovrebbe essere sempre e soltanto quella della sintesi? Sono domande, certo, che vanno al di là del VI congresso del Prc. E’ la politica, tutta la politica, che oggi vive una tendenza di fondo alla divisione – e spesso alla vera e propria frammentazione. Guardate lo spettacolo, non certo edificante, che offre di sé l’Unione sul candidato-sindaco di Venezia (la coincidenza cittadina, certo, è del tutto casuale). Eppure, ridurre questi processi, compresi quelli più negativi, a “litigi”, a risse, a scontri personalistici, non aiuta né a capire né a fare molti passi in avanti. Sullo sfondo, resta il problema principe: la crisi della rappresentanza e dei suoi meccanismi. Non sarà anche in virtù di questa crisi che, per esempio, un partito come Rifondazione comunista si è dato un regime interno diverso dalla tradizione comunista (il centralismo democratico) ed è approdato, volente o nolente, a un regime fondato su “tendenze”, “sensibilità”, “aree”, “anime”, che ciascuno può chiamare come vuole, secondo le regole della semantica dell’eufemismo, ma che sono comunque riconoscibili nella loro sostanza correntizia?
Certo, il “correntismo” è una soluzione discutibile. A me, per esempio, non piace – non mi piacciono, soprattutto, le sue conseguenze, come il rischio della cristallizzazione del dibattito, come la crescente difficoltà ad ascoltarsi e anche a reciprocamente influenzarsi, come, insomma, la trasformazione di una grande ricchezza originaria del Prc (il pluralismo delle culture politiche) nella povertà di una “componentistica impermeabile” e, alla fin fine, mica tanto democratica. Ahimè, le correnti ci sono, nel Prc, e ci sono non perché qualcuno lo abbia decretato dall’alto, ma per libera scelta, per diritto, per bisogno di rappresentanza. E perché nessuno di noi sa in che cosa potrebbe consistere una “terza via”, tra vecchio unanimismo e vecchio frazionismo, per usare la terminologia leniniana. Ma, nel frattempo, che cosa si fa? Come si regolano i rapporti interni in un partito che, oltre a garantire la rappresentanza – rigorosamente proporzionale – di tutte le posizioni, deve anche agire, prendere decisioni, elaborare posizioni, condurre campagne, lotte, “vertenze”? A Rossana Rossanda non può sfuggire che il problema è precisamente questo: l’affermazione della necessità dell’agire politico. Che va discusso, confrontato, dialettizzato fino al massimo delle nostre possibilità, ma poi, alla fine va tradotto in chiarezza, in fare, in processi reali, e non può esser sottoposto ad una sorta di meccanismo congressuale infinito – pena la paralisi, l’afonia, l’immobilismo, la chiusura di ogni fecondo rapporto con quel vasto elettorato (e popolo di sinistra) che da Rifondazione molto si aspetta. Di questo si tratta, e non di improbabili vocazioni “decisioniste” e di ancor meno probabili pulsioni ad excludendum. Mi pare curioso addossare a Bertinotti la responsabilità di un dibattito non adeguato all’interesse, o al valore, della sua relazione introduttiva: non varrà, quantomeno, anche la responsabilità di chi ha considerato secondario questo terreno e primario – per dire – quello dello statuto? In realtà, su questi problemi non possono valere principi “assoluti”. Appunto: finora, fino a questo congresso, il Prc ha sperimentato quella formula che va sotto il nome di “gestione unitaria” del suo massimo organismo esecutivo, ma senza risultati apprezzabili, anzi con la crescita di una conflittualità interna non sempre di segno nobile. Allora? Allora, l’unica strada che si intravede – non senza preoccupazioni e non senza un po’ di amarezza – è quella di vivere il conflitto interno con civiltà, rispetto, speranza. Speranza di superarlo avanzando tutti. Speranza di scioglierlo nella realtà della prassi politica, che è il solo luogo deputato, gramscianamente, a stabilire chi e se può fregiarsi di avere l’egemonia.
Rina Gagliardi