La casa torna ad essere un problema politico. Che bussa alle porte di un governo decisamente distratto, fin qui, rispetto alle fasce più deboli e disagiate della popolazione. La ricerca del Censis e del Sunia-Cgil presentata ieri non lascia molto spazio all’immaginazione, specie quando Luigi Pallotta (segretario generale del Sunia) snocciola il numero dei contratti di affitto in scadenza entro il 31 dicembre: tra 800 mila e un milione. Contratti stipulati almeno otto anni fa; ma da allora gli affitti sono levitati anche del 128% nelle grandi città (una differenza che nessuna contrattazione salariale può far recuperare). Insomma: gli inquilini che proveranno a restare tali si troveranno di fronte a richieste di aumento pressoché insopportabili.
Quel 18,7% di famiglie italiane in affitto (4 milioni e 180 mila) denunciano infatti per il 76% un reddito inferiore ai 20.000 euro, solo il 20% veleggia verso i trentamila; il 24,5 sta addirittura sotto i 10.000. Fare la media può essere estremamente fuorviante, perché bisogna distinguere tra aree geografiche, piccole e grandi città, anni di stipula del contratto; ma il 42% delle famiglie paga più di 700 euro al mese. Basta mettere questa cifra a raffronto con il reddito (quasi sempre da lavoro dipendente, impossibilitato a evadere il fisco) per calcolarne l’incidenza.
Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, sintetizza a grandi linee l’anomalia italiana in tema di edilizia residenziale. L’enfasi sull’80% di proprietari nasconde una realtà sociale parecchio ingessata e una politica di edilizia sociale debole, addirittura scomparsa negli anni ’80 e ’90, affossata dalle grandi cartolarizzazioni tremontiane. Un mercato dell’affitto così asfittico come offerta, e così esoso come costi, blocca infatti la «flessibilità» del paese, la mobilità interna (un giovane meridionale che vada a cercare lavoro – magari precario – al nord rischia di consegnare la busta paga al padrone di casa); costituisce un problema sociale (spreme le fasce più deboli della popolazione e l’immigrazione di prima ondata, provocando situazioni di conflittualità etnica pericolose); infine, l’alta incidenza dei costi dell’abitare (affitto, condominio, utenze) sul reddito blocca i consumi. L’edilizia pubblica copre una quota ridicola per un paese civile: il 4,5%. In Europa stanno peggio solo Spagna e Portogallo, mentre persino la «liberista» Gran Bretagna ci guarda con disprezzo (21% del totale, come la Svezia, più della Danimarca).
Evocare l’edilizia popolare in genere viene associato a una richiesta di incremento della spesa pubblica. In realtà, spiega Paola Agnello Modica, una «quota di intervento pubblico è certo necessaria, ma solo come volano»; né è detto che debba essere «tutta spesa pubblica centrale». Una «valorizzazione del patrimonio esistente, non la sua svendita per fare cassa» libererebbe risorse da investire in nuovi alloggi; e ampi settori privati (cooperative, soprattutto) sono già oggi disposti ad investire in presenza di «progetti intelligenti».
Non dovrebbe esser impossibile una riflessione politica sul fallimento della prima «liberalizzazione» di questo paese, la casa appunto (fin lì regolata dall’«equo canone»). Anche in quel caso la teoria liberista prevedeva una riduzione degli affitti e un aumento dell’offerta; la realtà, 20 anni dopo, dimostra che il mercato, lasciato a se stesso, produce mostri pericolosi. Il problema è che in questo governo non è chiaro neppure chi si debba occupare del problema-casa. Mentre si parla di riduzione dell’Ici e «si è rinunciato al provvedimento sulla tassazione delle rendite finanziarie», dando un «pessimo segnale alla speculazione». Idem per l’idea della «cedolare secca» sugli affitti, che così com’è formulata «è un regalo alla rendita». Altra cosa sarebbe il creare un «conflitto di interessi» tra inquilino e proprietario, consentendo al primo di portare in detrazione sul reddito la spesa per l’affitto. A quel punto una grossa quota del «mercato nero» emergerebbe, fornendo buona parte delle risorse necessarie a stimolare una politica della casa.