Cappio pronto per Saddam

«La legge prevede la pena di morte ed è questa che chiediamo venga applicata». «L’accusa richiede per loro la pena più severa, perché questi uomini hanno diffuso la corruzione sulla terra, non hanno mostrato alcuna pietà, nemmeno per anziani, donne e bambini. Neanche gli alberi si sentivano al sicuro dalla loro oppressione». Quando nel primo pomeriggio di ieri Jaafar al-Mussawi ha avanzato alla giuria la richiesta d’impiccagione per l’ex dittatore iracheno (questa la modalità con la quale verrebbe eseguita l’eventuale sentenza), Saddam Hussein, abito scuro e camicia bianca, ha guardato il magistrato che l’ha messo sotto accusa per la strage di Dujail del 1982 e, sarcastico, gli ha detto soltanto: «Ben fatto!».
Il pubblico ministero vorrebbe che sul patibolo salissero l’ex raìs, il suo fratellastro ed ex capo dei servizi segreti Barzan al-Tikriti, e l’ex vicepresidente Taha Yassin Ramadan, due degli otto gerarchi del partito Baath coimputati per «crimini contro l’umanità». Punizioni «più lievi», ma imprecisate nel dettaglio, quelle chieste per Abdullah Kadum Ruwaid, Ali Dieh Ali e Mizhir Abdullah Kadum Ruwaid, ex funzionari locali del partito Baath. Per l’ex presidente del tribunale rivoluzionario, Awad Hamed al Bander, al-Mussawi vorrebbe una pena severa, ma ha lasciato al tribunale il compito di definirne l’entità. Infine proscioglimento, per mancanza di prove, per Mohammed Azawi. Il prossimo 10 luglio toccherà alla difesa giocarsi le sue ultime carte, dopodiché ai cinque membri della giuria spetterà il compito più difficile, quello di decidere se accogliere le richieste dell’accusa in un momento in cui l’Iraq è sconvolto dalla violenza interconfessionale e alla politica non è stata recuperata che una minima parte della élite sunnita che per decenni ha governato il paese prima dell’invasione anglo-americana del marzo 2003.
Una condanna a morte per Saddam, comminata al termine di un procedimento criticato dalla maggior parte degli osservatori indipendenti, potrebbe avere l’effetto di galvanizzare la guerriglia (almeno quella parte che fa riferimento all’ex partito Baath, la più preparata da un punto di vista militare e politico) aumentando il suo risentimento nei confronti del nuovo potere sciita-curdo. I giudici dovrebbero pronunciare il loro verdetto tra agosto e settembre, ma un eventuale condanna a morte non potrebbe essere eseguita prima che siano completati gli altri processi in cui l’ex raìs potrebbe essere coinvolto, tra cui quello per lo sterminio di migliaia di curdi nella cosiddetta «Campagna di Anfal», per cui è già stato chiesto il rinvio a giudizio oltre che per Saddam anche per suo cugino Ali al Majid, meglio noto come Ali il chimico.
La richiesta di condanna a morte di ieri nasce dall’accusa per «crimini contro l’umanità» frutto della repressione attuata nel 1982 contro gli sciiti, dopo che un convoglio che trasportava l’allora presidente fu attaccato nella città di Dujail. Saddam e i suoi coimputati sono accusati di aver arrestato centinaia di sciiti subito dopo il fallito attentato e di aver torturato fino alla morte 148 persone, incluse donne e bambini. I loro avvocati hanno difeso i gerarchi del Baath cercando di giustificare quell’episodio come una «legittima rappresaglia» contro un «atto terroristico», il tentativo di assassinare l’allora presidente dell’Iraq. Gli imputati da parte loro hanno negato la loro responsabilità diretta in quella repressione.
Ma è soprattutto la modalità con cui il procedimento è stato portato avanti – sullo sfondo di un paese occupato e di un conflitto tra le diverse confessioni religiose che si è inasprito dopo l’attentato contro la moschea sciita di Ramadi del febbraio scorso – ad aver sollevato grosse perplessità. Per la maggior parte dei sunniti si tratta di un classico esempio di «giustizia dei vincitori», con gli sciiti e i curdi che processano l’ex tiranno mentre monopolizzano il potere politico ed economico. Gli osservatori indipendenti e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno sottolineato invece che alla difesa è stato concesso uno spazio infinitamente minore rispetto all’accusa, soprattutto per quanto riguarda le audizioni dei testimoni. Ma non basta, perché il processo è stato segnato anche dall’assassinio di tre degli avvocati della difesa, dall’abbandono del primo presidente del tribunale e dalla ricusazione del giudice chiamato a sostituirlo, a causa della sua passata adesione al partito Baath. Tutte circostanze inimmaginabili per un ordinamento democratico che assicuri un processo giusto ai propri cittadini, ma terribilmente reali nell’Iraq occupato, dove l’ex maggioranza sciita discriminata per decenni ha fretta di vendicarsi.