Iraq, Libano, conflitto israelo-palestinese, rapporti con l’Iran, tensione tra musulmani sunniti e sciiti. Sono questi alcuni dei temi più caldi in cima all’agenda del prossimo vertice arabo che si terrà il 28 e 29 marzo a Riyadh. Ma non è tutto qui. Secondo Israele al summit si discuterà anche di modifiche all’iniziativa di pace araba del 2002. Una versione che a Tel Aviv definiscono «migliorata», ovvero più vicina alle posizioni israeliane. A sostenerlo è stato, due giorni fa, Aluf Benn sulla prima pagina del quotidiano israeliano Ha’aretz, sottolineando che il piano concepito dall’allora principe ereditario saudita (oggi re) Abdallah e integrato al summit di Beirut per ribadire il diritto al ritorno per i profughi palestinesi, non sarà mai accettato dal governo Olmert, nonostante offra allo Stato ebraico il riconoscimento pieno del mondo arabo e una pace definitiva in cambio del ritiro di Israele dai Territori arabi e palestinesi che ha occupato nel 1967. Benn spiega in forma più articolata ciò che giovedì il ministro degli esteri Tzipi Livni aveva già affermato, in una intervista al quotidiano palestinese Al-Ayyam.
Il giornalista di Ha’aretz, solitamente ben informato, mette in chiaro che Olmert punta a scardinare il fronte arabo rispetto alla questione dei profughi palestinesi (circa 800mila nel 1948, quando furono espulsi o, in minima parte, fuggirono dal neonato Stato di Israele; oggi sono oltre 4milioni). In questo modo un’eventuale pace tra mondo arabo e Stato ebraico non sarebbe vincolata anche alla attuazione della risoluzione 194 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che sancisce in modo inequivocabile il diritto dei profughi palestinesi di far ritorno alle case (oggi in territorio israeliano) che furono costretti a lasciare quasi 60 anni fa.
Al premier piacerebbe un piano arabo più aderente alla proposta iniziale formulata dal suo autore, Abdallah, che accantonava il problema dei profughi con l’evidente obiettivo di compiacere non solo Israele ma anche l’Amministrazione Bush in un momento – era il 2002 – in cui i rapporti tra Washington e Riyadh erano al punto più basso a causa della massiccia presenza di sauditi tra i dirottatori dell’11 settembre. Il rispetto della risoluzione 194 dell’Onu infatti venne inserito nella proposta di pace durante i lavori del vertice arabo di Beirut. L’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon – impegnato in quelle settimane a rioccupare le città autonome palestinesi della Cisgiordania – respinse seccamente il piano, mettendo in chiaro che lo Stato ebraico non tornerà mai alle linee del 1967, precedenti all’occupazione dei territori arabi e palestinesi. Olmert invece si mostra più disponibile, anche perché, dopo 5 anni, sente che la posizione d’Israele sul terreno e in diplomazia è molto forte: il muro costruito in Cisgiordania ha cancellato la linea di demarcazione esistente 40 anni fa e, di fatto, viene accettato da paesi arabi, cosiddetti «moderati», come la Giordania, l’Egitto, quelli del Golfo e, appunto, l’Arabia saudita. Il silenzio di molti capi di stato e di governo arabi sul muro deve essere interpretato come assenso.
Il jolly sul quale Israele crede di poter contare al vertice arabo di fine marzo si chiama Bandar bin Sultan. L’ampia foto dell’influente Consigliere per la sicurezza nazionale saudita apparsa sempre due giorni sulla prima pagina di Ha’aretz, spiega fin troppo bene l’importanza che Tel Aviv assegna all’ex ambasciatore di Riyadh a Washington. Nel profilo tracciato da Aluf Benn, il diplomatico saudita, rientrato in patria dopo 22 anni trascorsi negli Stati Uniti, viene descritto quasi come un portavoce delle preoccupazioni di Israele. Bandar e Olmert lo scorso settembre s’incontrarono segretamente in Giordania segnando un avvicinamento senza precedenti tra due paesi che, formalmente, non hanno alcun rapporto. L’ascesa di Bandar bin Sultan nella politica mediorientale, raccontata qualche giorno fa anche dal noto giornalista americano Seymour Hersh sul Newyorker, lascia ben sperare Olmert, certo non solo di poter far sentire la sua voce al summit di Riyadh ma anche di ridimensionare ulteriormente quel poco che ancora rimane del sostegno arabo alla causa palestinese.