Camp Bucca, fuoco Usa sui prigionieri

Ribellione dei detenuti nella prigione militare americana nel sud del paese. I marine sparano: quattro morti. Ancora incerte le cifre sull’affluenza dei votanti alle elezioni di domenica

Gli abitanti di Baghdad, dopo una settimana da incubo e di guerra per le strade della capitale si sono svegliati ieri in una città sempre più blindata dove infuriano le polemiche sulle elezioni appena conclusesi e continuano a riecheggiare spari ed esplosioni, mentre un misterioso gruppo, le «Brigate dei Mujaheddin dell’Iraq» ha mostrato in una foto su internet un soldato americano, John Adam, sostenendo che sarà ucciso tra 72 ore se non saranno rilasciati i prigionieri iracheni. Un comunicato probabilmente falso: il comando Usa smentisce e conferma che nessun soldato manca all’appello (nella foto, il soldato somiglia molto a un gioicattolo, come ha dimostrato anche il sito Drudge Report). Drammaticamente vere invece le notizie giunte nella giornata dal sud del paese, da Camp Bucca, vicino al confine con il Kuwait, che ospita ben 4700 dei 7.000 prigionieri politici iracheni ufficialmente nelle mani degli occupanti. Di fronte alla rivolta di quattro sezioni del campo – sostiene uno scarno comunicato dei comandi Usa – i soldati americani «dopo 45 minuti di pericolo crescente hanno usato una forza letale per porre termine alla violenza». Nella sparatoria vi sarebbero stati quattro morti e sei feriti. Il comunicato dice assai poco su quel che è accaduto e, soprattutto, sul perché. Inutile cercare d’avere informazioni presso gli uffici stampa della «green zone».

Del resto è quanto avviene normalmente in questa guerra dove non solo le vittime irachene ma anche quelle alleate, oramai oltre 1607 (1436 americani, 86 britannici, 85 degli altri contingenti) dall’inizio della guerra sfumano tra le righe di comunicati, spesso di molto ritardati rispetto ai fatti di cui si parla, in modo da non costituire più materia giornalistica, scritti in una sorta di lingua cifrata, tipo messaggi telefonici, dalla quale scompare del tutto la tragedia materiale concreta della guerra. Basta leggere i foglietti appesi negli uffici stampa militari della «green zone» per rendersi conto di quanto la realtà sia stravolta ma anche sterilizzata: «Mnf (gli Usa con i loro ascari chiamati alleati) e Inf (le milizie collaborazioniste irachene) hanno avuto un incontro (uno scontro a fuoco) con Aif (Forze anti-irachene, in riferimento non agli Usa come chiunque potrebbe pensare poiché gli invasori sono loro, ma piuttosto ai militanti locali della resistenza) che stavano collocando un Ied (un dispositivo esplodente improvvisato)». In questo mondo oscuro e asettico di sigle l’autobomba diventa un apparentemente inoffensivo Vbied («Vehicle-Born» dispositivo esplodente improvvisato) e nel caso di un attentato suicida basta aggiungere alla sigla una S (Suicide) e il tutto diventa Svbied. Se poi la cintura esplosiva è portata dall’attentatore stesso, senza macchina, allora il «martire» passa alla non-storia come un misero Pbied («Personal Born» ordigno esplosivo artigianale).

Ma già capire, dopo aver passato sei check point e sei perquisizioni all’entrata della «green zone» dove puoi raccogliere una qualche informazione sulla rivolta del carcere non è impresa da poco dal momento che qui tutti parlano, con grande soddisfazione, in codice e allora un mercenario nepalese ti guarda come se fossi un contadino arrivato in città quel giorno stesso quando non sai rispondere alla domanda se vuoi andare al Cpic (Combined Press Information Office) il portavoce dei militari oppure, vista l’irachizzazione avanzante, all’Iig (Iraqi Interim Government) dove sembrano tutti allievi del vecchio ministro dell’informazione dei tempi di Saddam Hussein, l’ex ambasciatore a Roma, Mohammed al Sahaf, talmente all’oscuro di tutto che venne rilasciato dagli americani il giorno in cui si consegnò agli occupanti.

Fuori della green zone, la città è ancora paralizzata mentre infuriano le polemiche sulle percentuali dei votanti. Tre giorni sono passati dalle elezioni e ancora non si conosce il dato dell’affluenza alle urne. Il portavoce della commissione elettorale Farid Ayar (cacciato via dal presidente della stessa Hussein Hindawi, dieci giorni fa ma sempre al suo posto) ha annunciato ieri che la percentuale dei votanti non sarebbe più quella di cui aveva parlato due giorni fa, così sulla base di «impressioni», del 72% ma piuttosto potrebbe «aggirarsi attorno al 57%- 60% di coloro che si sono registrati». Ipotizzando che il numero dei registrati sia inferiore a quello degli aventi diritto, la percentuale scenderebbe così ancor più sotto il 50% .

Su questo scottante problema già fioccano le polemiche sul ruolo giocato dai media internazionali nel gonfiare le cifre di una partecipazione al voto, comunque reale, ma verificatasi in misura assai meno significativa di quanto si sia voluto far credere, e soprattutto nel cancellare del tutto la voce di quella maggioranza del popolo iracheno, a cominciare dalla comunità sunnita, che non ha voluto o potuto votare. Secondo alcuni giornalisti iracheni, tesi questa confermata poi dal decano dei reporter del Medioriente, Robert Fisk, le Tv occidentali presenti a Baghdad avrebbero ricevuto dagli americani l’indicazione di cinque seggi dov’era possibile filmare «con una certa sicurezza» e di questi, quattro si trovavano in zone sciite e uno in un quartiere sunnita benestante. Ovviamente gli operatori cine-Tv hanno poi trovato sul posto folle entusiaste di votare di militanti del partito di Chalabi, dello Sciri e del primo ministro Allawi. In alcuni casi con tanto di nonno fatto alzare dal letto, in pigiama, tipo il «capannelle» de «I soliti ignoti», da portare al seggio in carrozzella a mostrare la sua riconoscenza al presidente Bush.

Polemiche anche sul fatto che molti votanti hanno confermato di essere stati costretti a votare dal responsabile per la distribuzione delle razioni gratuite mensili, nel distretto di Baya’a, pena la loro cancellazione dagli elenchi annonari. Praticamene dall’«Oil for food» al «Vote for Food».

La situazione più scandalosa, che ha infangato la parola stessa «democrazia» in questa regione per anni a venire, è quella verificatasi a Kirkuk dove, dopo aver cacciato 50.000 arabi manu militari con la complicità e il silenzio dei governi di Washington e di quelli alleati , le milizie kurde hanno ricevuto a tavolino dagli Usa 100.000 voti in più (sulla base del presunto numero di kurdi mandati via dalla città durante il passato regime) con una gravissima alterazione dell’equilibrio demografico rispetto alle altre due comunità cittadine, l’araba e la turcomanna che costituiscono la maggioranza dei residenti in città. In tal modo pur essendo minoranza i kurdi avranno il 70% dei seggi al consiglio provinciale. Un colpo di mano che considerando le ricchezze petrolifere di Kirkuk, e il progetto di dividere l’Iraq con la creazione di uno staterello kurdo-americano nel nord, avrà conseguenze inimmaginabili non solo per la Mesopotamia ma per l’intera regione. Anche perché in questo caso ad essere perseguitati non sono soli gli arabi (il cui sangue evidentemente non vale più molto) ma anche i turcomanni che dovrebbero godere della protezione di Ankara e che, per sfortuna di Washington, sono però anche sciiti come gli Allawi di Turchia.

Di fronte al precipitare della situazione ieri il premier turco Tayyup Erdogan ha criticato duramente gli Usa e gli alleati «per non aver fermato» la creazione con la forza di un quadro «etnicamente sbilanciato» a Kirkuk che rischia di «portare il caos», aggiungendo poi che «la Turchia non potrà permetterlo». Il Titanic Iraq, mentre tanti politici del mondo, complici o ignoranti, ballano nel salone delle feste inneggiando alle elezioni farsa di domenica, continua ad avvicinarsi inesorabilmente verso l’iceberg della pulizia etnica e di altri devastanti conflitti.