La discussione sui temi della rappresentanza e delle forme della politica – promossa sabato scorso dalla camera di consultazione della sinistra – ha avuto il pregio di circoscrivere ulteriormente i contorni di alcuni punti critici. Di questi, due mi paiono essenziali: la proposta di una lista elettorale unitaria che dia rappresentanza alla sinistra dell’Unione e il giudizio sulle imminenti primarie. Faccio riferimento per comodità al ragionamento di Oliviero Diliberto, che con nettezza ha prospettato il primo punto, dicendo subito che a mio parere esso mette capo a una conclusione non condivisibile. Non vi è dubbio che l’ultimo scorcio dell’anno politico ci ha posto davanti ad un’offensiva delle forze neocentriste dell’Unione, le quali – anche approfittando dei ritardi della sinistra – si sono tempestivamente disposte a raccogliere le opportunità offerte dalla crisi del blocco sociale delle destre, dotando la coalizione anti-Berlusconi di un profilo politico-programmatico sempre più moderato e sempre meno “di alternativa”. Ritengo che da ciò dovrebbe discendere l’urgenza di dispiegare davanti al paese e senza reticenze la dialettica programmatica e il confronto sui contenuti; e, per questa via, provare ad avanzare sul terreno generale del consolidamento della sinistra di alternativa, entro un percorso di lotta alle politiche di destra e in un’interlocuzione costante e aperta tra partiti e pezzi di partito, forze sociali e di movimento. E’ questa la strada per dare fondo alle risorse disponibili a sinistra, per rispondere sul serio all’esigenza di unità: non già prefigurando la scorciatoia di una precipitazione elettoralistica. Ciò vale per un altro essenziale motivo. Anche dal punto di vista – del tutto comprensibile – della resa elettorale, non è vero che la somma aritmetica dei consensi di partenza dia automaticamente il risultato sperato: è vero anzi il contrario, soprattutto quando il calcolo elettorale si trovi a forzare i tempi della politica. E’ perfettamente legittimo che ad esempio – superando “le resistenze di chi non intende mettere in discussione il proprio ‘logo’” – vi sia chi punti a mettere insieme entro un “programma arcobaleno” una “sinistra ecologista, plurale e radicale”, che metta “alle spalle le culture ideologiche del novecento” (cfr. l’articolo di Cento/Bulgarelli su Il Manifesto del 2 luglio scorso). Bisogna però sapere che c’è (non solo in Italia) una quota non marginale di elettorato in vario modo comunista, che non considera il simbolo della ‘falce e martello’ una specie di reperto archeologico ed anzi lo collega all’obiettivo del riscatto sociale e di una profonda trasformazione della società capitalistica: hanno dovuto verificare ciò i comunisti spagnoli, i quali hanno visto quasi annientato il loro patrimonio (identitario e di voti) all’interno del raggruppamento “di sinistra radicale” Izquierda Unida. Ciò sia detto, lo ripeto, a prescindere dalla necessità ineludibile di affrontare e possibilmente cominciare a sciogliere i problemi di contenuto, che – come ha ricordato Rossana Rossanda nella sua relazione sul Trattato costituzionale europeo – permangono e non sono di poco conto.
Restando sul versante dei contenuti, vengo al secondo punto. E dico che mi ha molto stupito constatare, nell’ambito di una discussione sulla rappresentanza e le forme della politica, la sostanziale assenza – a parte un paio di apprezzabili eccezioni – di un tema a mio parere decisivo: quello degli effetti nefasti prodotti dall’attuale sistema elettorale. Ascoltando la relazione di Paul Ginsborg, che criticava la separatezza della politica e constatava il “fallimento soggettivo” del progetto di una politica nuova e più vicina alla gente, ho ricordato alcuni dati posti in rilievo nell’ambito di un’analisi del voto nella regione Lazio: dati che giustamente erano fatti valere come esempio di una mutazione concernente in generale la politica italiana. A Frosinone, in occasione delle regionali del 2000 il Prc ottenne circa 11 mila voti e, complessivamente, 4.800 preferenze; alle ultime regionali, su un totale di 17 mila voti si sono registrate intorno alle14 mila preferenze. L’incremento del rapporto preferenze/voti, peraltro riscontrabile un po’ dovunque, ha a che fare con un processo che concerne la qualità della politica. Esso costituisce il segnale di una mutazione degenerativa; la quale coinvolge tutti, perché nessuna forza politica è per definizione ad essa impermeabile. In estrema sintesi, i valori e le idee-forza cedono il campo all’appeal personale di un candidato; e l’azione delle cellule di base di partiti e associazioni tende a trasformarsi, almeno parzialmente, in quella di comitati elettorali ad personam. Qui sta uno dei meccanismi involutivi di fondo indotti dal sistema attuale. Ora, lo strumento delle primarie – stabilendo un rapporto diretto tra elettorato e leader in competizione tra loro – costituisce per così dire l’apogeo di tale tendenza alla personalizzazione della politica, a sua volta brodo di coltura per torsioni istituzionali autoritarie all’insegna della primazia di leader e premier. Sarebbe dunque paradossale che fossero scambiati per istanze di democrazia diretta istituti tipici della democrazia plebiscitaria (la cui attivazione è in controtendenza rispetto alla stessa opposizione alla controriforma istituzionale delle destre). Il punto è che si lascia che simili rilevanti questioni siano piegate alle esigenze della tattica. In una congiuntura difficile, prendendo atto del terreno indicato da altri, si prova a sparigliare anche con strumenti estranei alla propria cultura politica. Ma anche sul piano del risultato a breve, non credo che il gioco valga la candela: il sicuro vincente (Romano Prodi) conseguirà ulteriori titoli per tirare le fila del programma e vincolare ad esso la coalizione. Non mi sembra una gran prospettiva.