Calipari, gli americani non vogliono colpevoli

Gli Usa vogliono chiudere l’indagine senza incriminare i soldati che hanno sparato contro l’auto su cui viaggiavano Giuliana e Nicola Calipari. L’obiettivo è non dare nessun elemento all’indagine della magistratura italiana

Stanno solo aspettando il momento migliore per dare l’annuncio. Ma la decisione è praticamente già presa: la commissione amministrativa americana si chiuderà senza incriminare nessuno dei militari che la notte del 4 marzo spararono sull’auto che portava verso l’aeroporto di Baghdad l’agente del Sismi Nicola Calipari e la nostra Giuliana. L’amministrazione americana, la stessa che aveva promesso massima collaborazione all’Italia e che si è detta più volte molto dispiaciuta per l’accaduto, non solo non vuole permettere che le indagini della magistratura italiana vadano avanti. Ma non accetterà neppure che i suoi soldati siano giudicati davanti alla corte marziale americana. Anzi è proprio la preoccupazione per l’inchiesta italiana in corso ad aver convinto il generale Peter Vangjel a capo della commissione amministrativa, che neppure un processo americano è possibile.

Ammettere le loro responsabilità e dare il via a un processo davanti alla corte marziale americana significherebbe creare un pericoloso precedente per l’inchiesta italiana in corso – avrebbero spiegato i membri della commissione agli «invitati» italiani – per questo non sarebbe possibile dare il via alla azione giudiziaria americana.

Che la tesi fosse quella dell’«incidente» è noto da almeno una settimana. Qualche giorno fa, infatti, il Pentagono aveva ammesso a la Repubblica che la conclusione era sostanzialmente questa e che ormai bisognava semplicemente aspettare che tutti gli atti delle indagini fossero materialmente messi nero su bianco nella relazione conclusiva. Lo stesso giorno Il Riformista ha spiegato pure che quella indagine interna ha dovuto ammettere ciò che la stampa di mezzo mondo ha già scritto da tempo: l’allarme per il passaggio dell’ambasciatore Nicholas Negroponte era passato da ore quando su quella stessa strada verso l’aeroporto di Baghdad è transita la Toyota Corolla con a bordo il gruppo italiano. Nella relazione della commissione, poi, ci sono le testimonianze della nostra inviata e dell’agente del Sismi che guidava l’auto. Entrambi dicono chiaramente che la Toyota non andava a forte velocità e l’agente americano, così come il generale del Sismi Mario Marioli si dicono certi che gli americani conoscessero l’«esistenza» e il «carattere» della missione italiana in corso. Insomma gli elementi per andare davanti ad una corte e capire se si è trattato davvero di un incidente e di che tipo ci sarebbero persino con questa indagine amministrativa.

E proprio qui sta il punto. Gli Usa sanno bene che quel principio tanto sbandierato, «solo noi processiamo i nostri soldati», non si basa su alcuna norma giuridica o trattato internazionale. Che, al contrario, l’Italia avrebbe tutti i diritti di far valere il proprio codice e il trattato di cooperazione con gli States firmato nell’82, per rivendicare il diritto di giudicare chi abbia commesso crimini contro un proprio cittadino. E sanno pure che non è affatto sicuro che l’allegato alla risoluzione Onu sulla guerra in Iraq (quello che mette nero su bianco il famoso principio, a firma di Collin Powell) valga più di tutti i precedenti trattati. Per questo non vogliono dare agli inquirenti italiani nessun elemento per le loro indagini. E soprattutto non vogliono dar loro i nomi dei soldati che hanno aperto il fuoco sull’auto italiana.

A questo punto manca solo il «via libera» italiano. Ed è perciò che il testo dell’inchiesta amministrativa, nei fatti chiusa da giorni, non è ancora stato consegnato al comando della forza multinazionale in Iraq: l’Italia dovrebbe firmare la condanna dell’inchiesta giudiziaria italiana ed accettare che gli americani non procedano neppure per proprio conto. Un patto d’amicizia davvero difficile da spiegare.