California dream, cala il blackout

Lo scorso 15 marzo, una nuova convergenza “bipartisan” – la seconda dopo quella che ha visto dieci rappresentanti democratici schierarsi a favore del piano fiscale proposto da G. W. Bush – ha consentito al Senato degli Stati Uniti di intervenire nella crisi energetica che da mesi attanaglia la California. Nonostante il parere contrario del presidente, il Senato ha infatti accolto la richiesta dei senatori Diane Feinstein (democratica, California) e Gordon Smith (repubblicano, Oregon) che da tempo chiedevano un intervento federale che fissasse un tetto massimo al prezzo dell’elettricità che viene venduta alla California e agli stati del Nord-Ovest (Oregon e Washington). “Credo nel libero mercato”, ha dichiarato il senatore Smith, “ma se il mercato va all’aria è nostro dovere intervenire”. A ben guardare, tuttavia, non è il mercato ad essere andato all’aria; anzi, mai come in questa occasione le sue leggi interne hanno dimostrato di funzionare con matematica precisione. A saltare sono state le ex aziende pubbliche californiane che lo smantellamento del monopolio statale dell’energia iniziato nel 1996 ha trasformato da produttrici a mere distributrici. Infatti, contrariamente a ogni più fosca previsione, il clima sempre più caldo, la scarsità di precipitazioni e la crescita del fabbisogno elettrico determinato dal boom economico-informatico di Silicon Valley hanno costretto le stesse aziende a far fronte all’aumento della domanda ricorrendo all’acquisto – ma a prezzi di mercato – di energia elettrica prodotta altrove. Resta da capire per quale motivo la crisi della California abbia coinvolto anche uno stato ricco di risorse come l’Oregon, al punto di spingere il senatore repubblicano Smith ad andare contro il parere di Bush.

Tutto ha origine nel 1933, quando il neopresidente Franklin Delano Roosevelt autorizzò la costruzione di un sistema di irrigazione che sfruttasse le acque del Columbia, il maestoso fiume che dalle montagne del Canada scende verso gli Usa per diventare confine naturale tra lo stato di Washington e quello dell’Oregon. Il mercato era crollato nel 1929 e gli agricoltori erano in fuga dalle Grandi Pianure inaridite dalle coltivazioni intensive, dal vento e dalla siccità che avevano colpito Oklahoma e Kansas già dal 1930. Ai migranti che attraversavano il paese in cerca di territori verdi e di una nuova vita – gli stessi di cui leggiamo in Furore (1939) di John Steinbeck, che vediamo nei reportage fotografici di Margaret Bourke White per la rivista Life e di cui ci canta Woody Guthrie nelle Dust Bowl Ballads (1940) – Roosevelt poté offrire non solo un lavoro nei cantieri della diga di Bonneville – la prima delle 14 dighe costruite con fondi federali lungo il Columbia (che in complesso, comprese quelle private e quelle disposte lungo i suoi affluenti, ne conta ben 400), situata a circa quaranta miglia a Est di Portland – ma anche pascoli e terreni coltivabili che promettevano di materializzarsi in aree al momento ancora aspre e desertiche.

Il progetto di Roosevelt, tuttavia, non si limitava a realizzare i sogni degli agricoltori del Nord-Ovest – che accarezzavano l’idea di una grande sistema di irrigazione già dal secolo precedente – né a offrire una speranza ai migliaia di diseredati vittime delle tempeste di polvere. Scopo ultimo del sistema di dighe concepito dagli ingegneri dell’esercito era infatti la produzione, la distribuzione e la vendita a prezzi convenienti di energia elettrica, sia ai cittadini, sia alle industrie. Non sorprende, allora, che la costruzione della diga di Bonneville sia diventata un simbolo di rinascita, né che la società che gestì il cantiere (la Bonneville Power Administration), avesse deciso di compattare il paese attorno alla spettacolare diga ingaggiando autori, attori e musicisti, tra cui Woody Guthrie. Dopo aver abbandonato le secche dell’Oklahoma e aver seguito i migranti alla ricerca di casa e lavoro, Guthrie si recò infatti a Bonneville, tra gli edili che lavoravano ininterrottamente lungo le acque maestose del Columbia, per assistere a una nuova tappa dell’epopea americana.
Le Columbia River Ballads, la raccolta di 26 canzoni che nel 1941 Guthrie avrebbe derivato dal suo soggiorno in Oregon e Washington, cantano un paesaggio completamente diverso da quello che aveva ispirato il compositore delle Dust Bowl Ballads. La fine del mondo che nel Sud-Ovest colpito dalla siccità pareva tremenda e inevitabile, nel nuovo disco si stempera lungo le acque di un fiume che lava via le privazioni, la fame e il senso di impotenza: “Verdi pascoli dell’abbondanza dalla terra arida e deserta/Dalla Grand Coulee Dam dove scendono le acque/Noi migranti siamo stati in tutti gli Stati dell’Unione/Abbiamo partecipato in questa lotta e combatteremo fino a quando non avremo vinto” (“Pastures of Plenty”). Lungo il fiume Guthrie può infatti dispiegare la sua versione del sublime tecnologico americano: la Gran Coulee Dam, la più grande di tutte le dighe, sposa “il re Columbia”, che scorrendo verso il Pacifico “fa un po’ di lavoro anche per me” (“The Grand Coulee Dam”). Uomo, natura e tecnologia si fondono anche in “Roll On Columbia”, una canzone che vede Guthrie allinearsi con i titoli di molte riviste dell’epoca (The New Republic, Newsweek, Nation, Harper’s) per i quali la Grand Coulee Dam rappresentava “l’ottava meraviglia del mondo”. Non si tratta né di un giardino, né di una torre, come pare vi siano in altre parti del mondo, ma di una diga appena costruita “nella bella terra dello zio Sam” da uomini ingegnosi che hanno domato la forza della natura: “L’acqua passa schizzando attraverso la diga/ Gocciola in tutti i territori/ La centrale elettrica canta, il generatore frigna/ Lungo la collina scendono grossi cavi elettrici/ L’elettricità sta dappertutto… ed è più a buon mercato dell’acqua piovana”.
L’entusiasmo per la diga di Bonneville coinvolse naturalmente anche il suo primo ispiratore. All’inaugurazione del settembre del 1937, cui volle essere presente, Roosevelt pronunciò infatti un discorso estremamente efficace, soprattutto agli occhi di chi oggi volesse rileggerlo alla luce dei blackout provocati dalla deregulation californiana: “Più studiamo le risorse idriche della nostra nazione, più diventiamo consapevoli del fatto che il loro sfruttamento è una questione di interesse nazionale e che nei progetti finalizzati a tale sfruttamento dobbiamo includere sia le grandi aree, sia le piccole comunità… Oggi, nell’osservare la diga di Bonneville non posso evitare di riflettere sul fatto che invece di spendere metà delle nostre entrate in armi da guerra, come fanno alcune altre nazioni, noi, in America siamo più saggi e destiniamo le nostre risorse a progetti come questo che porteranno più benessere, migliori condizioni di vita e maggiore felicità ai nostri figli”.
Diversamente da quanto accaduto con la Tennessee Valley Authorithy, il primo grande progetto di bonifica territoriale dell’era Roosevelt, le dighe sul Columbia sono passate indenni attraverso accuse di socialismo formulate da chi vedeva nel monopolio statale dell’energia una intromissione dello stato nell’economia, nonché un deterrente per la libera impresa. Fino ad oggi esse hanno infatti continuato a produrre il 60% del fabbisogno elettrico di tutto il Nord-Ovest. Anzi, fino a ieri. Alle porte di un’estate che i meteorologi prevedono essere torrida anche i lussureggianti Oregon e Washington, ovvero i due stati dai quali una California ormai priva di risorse elettriche statali ha acquistato buona parte del suo fabbisogno elettrico, cominciano a temere il peggio: il livello di Lake Roosevelt, il più grande deposito idrico di tutto il complesso di dighe del Nord-Ovest è già sceso sotto il livello di guardia. Ciò che si è verificato in California potrebbe dunque ripetersi altrove? Ma è possibile che si verifichino blackout proprio nei due stati Usa in cui scorrono le acque di un fiume maestoso e ricco di risorse come il Columbia? Quanto costerebbe alle casse di questi due stati comprare l’elettricità dal Texas, oppure dal North Carolina?

Ne La scoperta dell’America (1894) Cesare Pascarella descriveva l’impazienza di Colombo e dei suoi marinai dinanzi a un continente che tardava a palesarsi con due efficacissimi versi: “Guarda… riguarda… Hai voja a slungà er collo/ L’America era sempre più lontana”. Da allora, naturalmente, l’America è diventata più vicina; restano intatti, tuttavia, la meraviglia e lo stupore dinanzi alla distanza che sporadicamente sentiamo aprirsi tra noi e “l’America”. Mi riferisco, naturalmente, ai soli Stati Uniti, al paese che pensiamo tutti di conoscere bene, se non altro perché mangiamo il loro stesso cibo, sentiamo la loro musica, guardiamo la loro televisione. E’ proprio dagli Usa, infatti, che periodicamente giungono notizie che ci sorprendono al punto da far traballare le nostre certezze. Da un parte, la messa in accusa del presidente Clinton a causa di una relazione segreta con una donna più giovane ci ha spinto a riflettere, prima ancora che sui motivi politici di quell’attacco così violento, sul peso dell’eredità puritana nel paese che per noi incarna la libertà sessuale; dall’altra, la sopravvivenza di un sistema elettorale arcaico, farraginoso e niente affatto democratico (i cittadini statunitensi, infatti, non eleggono direttamente il loro presidente) ci ha fatto scoprire, tra le altre cose, che negli Usa esiste un’aristocrazia i cui membri possono contare su una vasta rete di amici e parenti strategicamente piazzati nelle stanze del potere. Oggi a lasciarci senza parole è una crisi energetica dal sapore antico: blackout, razionamento delle risorse, bollette salate. Come è possibile che lo stato in cui si producono i sogni (Hollywood), quello dell’abbondanza (la febbre dell’oro) e della tecnologia (Silicon Valley), stia rischiando di rimanere senza luce? Sembra di essere finiti nel medioevo, oppure in Chinatown (1974) di Roman Polanski, laddove una Los Angeles anni Quaranta rimane senza acqua a causa di trame e interessi malavitosi (e non sono pochi a sospettare che dietro alla crisi elettrica della California si celi un complotto perpetrato da affaristi senza scrupoli); invece è tutto vero e sta accadendo adesso.

Tre mesi fa, al fine di descrivere il pasticcio elettorale americano Marco d’Eramo ha sottolineato come gli Usa siano al contempo tecnologici e primitivi. Due settimane fa Alessandro Portelli ci ha raccontato di come il giardino americano per eccellenza, la quieta Concord, in Massachusetts – la culla della civiltà letteraria del New England, una cittadina circondata da boschi, laghi e fiumi in cui l’obiettore di coscienza Henry David Thoreau poteva fuggire allo scopo di rigenerarsi nella natura incontaminata – sia ora un luogo di morte, una sorta di giardino avvelenato del tutto simile allo scenario malsano descritto in “La figlia di Rappaccini”, un racconto inquietante di Nathaniel Hawthorne, un altro autore che conosceva bene Concord. Oggi la crisi energetica della California e la sorprendente diramazione oregoniana sembrano confermare entrambi i copioni: non solo perché la crisi ci riporta davanti agli occhi un paese che è al complesso primitivo e tecnologico, ma soprattutto perché a guardare meglio al passato possiamo rinvenire un altro giardino avvelenato, nonché le vestigia di una guerra ancora tanto vicina. Infatti, il forte slancio ideale che negli anni Trenta ha consentito l’avvio dei cantieri che hanno dato vita alle dighe sul Columbia porta con sé anche una storia di morte. Tra il 1937 e il 1941 né Roosevelt, né Guthrie potevano immaginare che il sistema idroelettrico del Columbia avrebbe comportato sia la distruzione dell’ecosistema fluviale, sia un’irrecuperabile moria di salmoni, sia il definitivo allontanamento delle popolazioni native ancora presenti sul territorio. Né che nel 1943 gli agricoltori stabilitisi ad Hanford, la cittadina nello stato di Washington che dal 1941 aveva beneficiato delle irrigazioni provenienti dalla Gran Coulee Dam, sarebbero stati cacciati in massa dalle loro nuove abitazioni per far posto a una fabbrica segretissima presso cui alcuni scienziati legati al Manhattan Project avrebbero presto costruito la bomba atomica sganciata su Nagasaki. Ma, nonostante quanto detto a Bonneville nel 1937, di quello che accadeva a Hanford almeno Roosevelt sapeva.