Quando li hanno trovati alcuni sembravano morti. Non davano alcun segno di vita. Avevano gli occhi spalancati, lo sguardo perso nel vuoto, sfiancati dalla fame e dalla sete dopo un viaggio terrificante che non voleva finire mai. I pochi ancora in grado di parlare hanno raccontato ai soccorritori di essere partiti in ventisette dalla Libia, venti giorni fa, e che tredici non ce hanno fatta: «Sono morti durante il viaggio e siamo stati costretti a gettare i loro corpi in mare».
Venti giorni in balìa del Canale di Sicilia, meglio noto come il «canale della morte», stretti stretti su una barca di quattro metri con il motore fuori uso e senza più né cibo né acqua. Il pessimo stato di salute in cui sono stati trovati è compatibilissimo con il loro racconto. «Erano in condizioni pietose, ridotti a scheletri, le labbra riarse dal sole e dalla salsedine», riferisce il comandante della nave della Marina militare «Sibilla», Stefano Bricchi, che ha diretto le operazioni di salvataggio dei quattordici sopravvissuti: «Quando li abbiamo soccorsi non si reggevano in piedi, sembravano fantasmi. Alcuni, per placare la sete, avrebbero perfino cercato di bere acqua di mare».
Erano le sette di venerdì sera quando «i morti viventi» sono stati avvistati da un peschereccio, il «Pindaro», a 130 miglia a sud est di Lampedusa, in acque internazionali molto distanti sia dall’Italia che da Malta. Il Pindaro comunica via radio di non poter intervenire per un incidente avuto a bordo e lancia così la richiesta di soccorso alla nave della Marina militare che in quel momento è di pattuglia al largo delle isole Egadi. La «Sibilla» impiega parecchie ore prima di raggiungere il luogo in cui si sta consumando la tragedia, e quando finalmente riesce a individuarlo la scena che si presenta davanti agli occhi dell’equipaggio è di quelle che non si dimenticano facilmente: «Erano distesi sulla barca, privi di forza. Agitavano debolmente le mani e ci chiedevano aiuto. Sembravano fantasmi», insiste il comandante Bricchi: «Alcuni di loro non davano segni di vita. Uno in particolare sembrava ormai morto. Solo quando l’abbiamo issato a bordo con una barella ci siamo resi conto che respirava ancora».
«Ancora qualche ora in mare e non ce l’avrebbe fatta», aggiunge il medico della «Sibilla», Vittorio Lenzi, che ha prestato le prime cure ai feriti, in particolare a un immigrato in gravissime condizioni e quindi subito intubato: «Siamo giunti appena in tempo per strapparlo alla morte, ma anche gli altri suoi compagni versavano in condizioni critiche, con gravi stati di disidratazione e denutrizione».
Sulla barca dell’orrore c’erano immigrati di varie etnie, gran parte del Mali, poi eritrei e somali e un egiziano. Tutti molto giovani, apparentemente dai 20 ai 30 anni. Il ricovero in ospedale viene ritenuto urgente per sette dei quattordici superstiti, ma per il loro trasferimento in ospedale passeranno ancora parecchie ore, quelle che occorrono alla nave militare per arrivare a Lampedusa, dove il 118 ha intanto inviato tre elicotteri che all’alba, quando la «Sibilla» arriva al porto, prelevano i feriti che lottano tra la vita e la morte e li trasferiscono di corsa all’ospedale Civico di Palermo. Due ci arriveranno in coma, ma i medici non disperano di salvarli. «Anche loro stavano per essere buttati in acqua dai compagni di viaggio, che li credevano morti», dice ancora il comandante Bricchi, «inorridito», nonostante una lunga esperienza di soccorsi in mare, dall’odissea che nel frattempo, in un inglese stentato, gli avevano raccontato i sopravvissuti.
«Sono disidratati, malnutriti e hanno un edema cerebrale», recita nel pomeriggio il bollettino medico per i due immigrati ricoverati in coma nel reparto di Rianimazione del Civico, dove sono stati sottoposti a terapia intensiva. Per gli altri cinque la diagnosi parla di «alterazioni idrico-elettrolitiche e malnutrizione». Anche loro raccontano a medici e infermieri di essere «rimasti in mare per venti giorni e di non aver mangiato e bevuto per quasi due settimane». «L’inedia, a cui stiamo tentando di far fronte con una terapia di nutrizione enterale e parenterale, ha determinato anche una ipotrofia della massa muscolare», spiega il primario del reparto di Rianimazione, Mario Re, che aggiunge: «Sono in uno stato confusionale. E uno di loro tiene stretto e bacia il crocifisso e ripete di essere cristiano».
Da Roma il ministro dell’interno Giuliano Amato, che proprio l’altro ieri aveva chiesto all’Unione europea pattugliamenti congiunti nel Canale di Sicilia a partire da agosto, rilancia intanto la sua sollecitazione: «L’ennesima tragedia del mare – dice – dimostra la necessità di iniziative straordinarie per contrastare le azioni criminali delle organizzazioni che sfruttano le migrazioni illegali nel Mediterraneo, nonché per le iniziative dirette a rafforzare il dialogo con la Libia».
Sono oltre duemila gli stranieri sbarcati vivi in Sicilia nelle ultime settimane. I corpi senza vita di tre immigrati, due uomini e una donna, vittime probabilmente di un naufragio, sono stati invece trovati lunedì scorso su una spiaggia davanti al mare di Scoglitti (Ragusa) dove anche ieri la guardia costiera ha intercettato un barcone con una trentina di immigrati a bordo. Un’altra ventina sono stati invece avvistati nel pomeriggio su una barca in difficoltà che faceva rotta verso Lampedusa. A bordo non ci sarebbero feriti. Secondo il governo italiano l’ondata di sbarchi sarebbe in parte causata dalla blindatura delle frontiere tra Spagna e Marocco e dal conseguente cambio delle rotte dell’immigrazione.