Bush minaccia la Siria, paura a Beirut

L’onda lunga della guerra in Iraq e la «distruzione creativa» del Medioriente portata avanti dall’amministrazione Bush sta lambendo sempre più Damasco e soprattuto Beirut dalla quale buona parte della popolazione, se ne è andata nelle ultime ore con il cuore stretto dalla paura che i fantasmi della guerra possano tornare presto a circolare sulla «corniche», sulla collina di Ashrafieh, nei campi profughi di Sabra e Chatila o nella periferia sud a maggioranza sciita. Il governo libanese ha varato una sorta di stato di emergenza non dichiarato e per tranquillizzare la popolazione -ottenendo in realtà un effetto opposto – ha messo in campo per le strade della capitale oltre 10.000 uomini tra soldati e membri delle forze di sicurezza. Gran parte dei politici libanesi hanno scoperto di avere importanti impegni di lavoro in Francia e il ministero degli interni ha sospeso da 48 ore la validità di tutti i porto d’armi. Due navi militari britanniche, con la scusa di «manovre navali» britannico-libanesi, sono alla fonda al largo del porto libanese di Tripoli, non lontano dalle coste siriane mentre il portavoce dell’Onu nella capitale, Najib Friji, è stato fatto partire in tutta fretta. Ma cosa sta succedendo a Beirut? Perché i libanesi, e non solo loro, hanno paura di quel che potrebbe succedere nei prossimi giorni?

Questi, forse irrazionali ma concretissimi timori, affondano le loro radici nella convinzione che le sempre più ossessive pressioni degli Usa su Damasco perché abbandoni al loro destino la resistenza palestinese, libanese e irachena e rinunci per sempre al Golan occupato da Israele possano portare ad una frammentazione non solo del grande vicino ma dell’intera area. Inoltre i libanesi sanno bene che il loro paese è un vaso di coccio tra tanti vasi di ferro e temono non solo i contraccolpi provenienti dall’esterno ma anche il fatto che gli Usa continuino a pretendere – coperti dalla risoluzione 1559 dell’Onu – un disarmo dei campi profughi (sempre più circondati dall’esercito) e quello della resistenza islamica libanese, degli Hezbollah che controllano la periferia sud di Beirut e gran parte del sud. I primi dovrebbero essere disarmati per poter poi cancellare i campi profughi e negare per sempre ai palestinesi il diritto al ritorno. I secondi perché pretendono la resistituzione al Libano delle «Fattorie di Cheba» ancora occupate da Israele, e soprattutto perché contrari ad un trattato di pace separato con Israele prima del ritiro dello stato ebraico dai territori occupati palestinesi, libanesi e siriani (il Golan). Su questa già precaria situazione sono piombate nelle ultime ore le dichiarazioni del Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, la quale non ha escluso un ricorso alla forza contro la Siria, le indiscrezioni della stampa Usa secondo la quale vi sarebbero stati già lungo il confine tra Iraq e Siria duri scontri tra le forze Usa e l’esercito di Damasco e due potenzialmente esplosivi rapporti dell’Onu fortemente voluti dall’amministrazione Bush e dalle ex potenze coloniali dell’area, la Francia e la Gran Bretagna. Si tratta del rapporto dell’inviato speciale di Kofi Annan, Terje Roed-Larsen sul disarmo della resistenza palestinese e libanese chiesto dalla risoluzione 1559, e del, potenzialmente ancor più devastante, rapporto della Commissione Onu sull’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri – lo scorso 14 febbraio a Beirut – presieduta dal discusso giudice tedesco antiterrorismo Detlev Mehlis. Il rapporto, che ha già portato all’arresto di quattro generali libanesi responsabili dei servizi segreti e della guardia presidenziale, è stato presentato ieri al segretario generale dell’Onu Kofi Annan che oggi lo darà al governo libanese e ai membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Del rapporto non si sa praticamente nulla ma secondo il settimanale tedesco «Stern» Mehlis sosterrebbe la tesi, tutta americana, di un coinvolgimento siriano nel complotto contro la vita Hariri ed in particolare di Asef Shawkat capo dell’intelligence militare di Damasco e genero del presidente Bashar. Dello stesso parere sembrano essere Washington e Parigi i quali, ancor prima di ricevere il rapporto, hanno già elaborato due mozioni per l’introduzione di sanzioni contro la Siria da presentare la prossima settimana al Consiglio di sicurezza. Un duro monito agli Usa è venuto ieri in serata dal segretario generale degli Hezbollah, Hassan Nasrallah il quale si è augurato che il rapporto Mehlis «non venga politicizzato dalle potenze straniere» aggiungendo poi «il Libano non farà mai parte del progetto mediorentale delle potenze dell’arroganza e dell’arbitrio».

Il presidente siriano Bashar Assad, in un’intervista alla Cnn, si è detto sicuro che la Siria non ha nulla a che fare con l’uccisione di Hariri – rivendicata da un fantomatico gruppo jihadista – ma che se qualche siriano dovesse risultare coinvolto nel complotto «sarà perseguito in modo esemplare» in quanto colpevole di «tradimento». Il rapporto Mehlis negli ultimi giorni ha perso gran parte della sua già scarsa credibilità quando la polizia francese ha reso noto di aver emesso un mandato di arresto contro Mohammad Suhayr al Sadiq un ufficiale-faccendiere di origini siriane le cui dichiarazioni avevano portato all’arresto – per complicità nell’uccisione di Hariri – di quattro generali dei servizi segreti libanesi considerati vicini a Damasco.