Il rapporto Baker sull’ Iraq, che consiglia il ritiro di metà delle truppe entro il primo trimestre del 2008 e negoziati con l’ Iran, rischia di finire nel cestino della carta straccia. Dalle consultazioni in corso alla Casa Bianca, l’ orientamento di George W. Bush sembra opposto: più truppe a Bagdad nei prossimi sei mesi per debellare l’ imam Al Sadr e la sua milizia, l’ esercito del Mahdi; un enorme aumento nel numero degli istruttori per l’ addestramento degli iracheni; massicce forniture di mezzi blindati e di altre armi alle loro forze; un rimpasto del governo Maliki che potrebbe costare il posto al premier. Il presidente continua a privilegiare gli strumenti militari rispetto a quelli diplomatici, e lo ha confermato ieri dopo una riunione al Pentagono con il ministro della Difesa uscente Rumsfeld e quello entrante Gates. «La violenza in Iraq è orrenda» ha ammesso Bush. «Ma rifiuto di prendere in considerazione le idee che portano alla sconfitta, come venire via prima di avere completato la missione. Darò alle nostre truppe tutti i mezzi e la strategia necessari al successo. Sappiano che il mio impegno è inamovibile». Il presidente ha aggiunto che non prenderà «decisioni precipitose», ma che aspetterà l’ anno nuovo per annunciare all’ America il nuovo corso: «Noi non ci arrenderemo, non consegneremo l’ Iraq ai terroristi». Sono stati i grandi quotidiani, dal New York Times al Washington Post, a svelare i temi sul tavolo di Bush, che negli ultimi tre giorni si è consultato col Dipartimento di Stato, i leader iracheni e i generali americani al fronte. Secondo il Post il capo di Stato maggiore Peter Pace ha chiesto da 5 a 10 mila nuovi reclutamenti per i marines e l’ esercito, e «accesso incondizionato» ai 346 mila membri della Guardia Nazionale e ai 146 mila membri della Riserva. Secondo il New York Times, Bagdad si è impegnata ad assumere l’ onere della propria difesa dalla prossima primavera o estate, cosa che permetterebbe alle truppe Usa di ritirarsi a ridosso della capitale. È un piano pieno d’ incognite, di cui la più grave è quella di una «guerra nella guerra», uno scontro tra gli Usa e Al Sadr. Gli americani sembrano sempre più critici nei confronti del presidente. Il sondaggio del Washington Post e della tv Abc vede il 70 per cento disapprovare il conflitto, il 72 chiedere che venga concluso, il 52 considerarlo perso. La maggioranza è inoltre per il piano Baker: il 64 per cento vuole che Bush negozi con l’ Iran. In un altro sondaggio di Usa Today e della Gallup, il 54 per cento giudica Bush uno dei peggiori presidenti della storia. Il presidente sarebbe in difficoltà anche a causa delle pressioni degli alleati arabi. Il New York Times scrive che il mese scorso il re saudita Abdullah ha ammonito il vicepresidente Cheney, in visita a Riad, che andrebbe in aiuto ai sunniti se l’ America ritirasse le truppe dall’ Iraq perché non accetterebbe una «pulizia religiosa» da parte degli sciiti. La Casa Bianca ha smentito – «non è la politica di Abdullah» – e lo stesso ha fatto Riad. Da indiscrezioni del Congresso però, il monito sarebbe stato rivolto a Cheney dall’ ambasciatore saudita a Washington, poi rimosso all’ improvviso. Quasi a ribadire la propria intransigenza, ieri Bush ha chiuso l’ uscio anche al dialogo con la Siria. In un inatteso comunicato, ha invitato il presidente Assad «a liberare i detenuti politici e a cessare le interferenze in Libano», proclamando il proprio appoggio «al popolo siriano che rivendica la libertà e i diritti umani». La risposta di Assad è stata aspra: «Invito tutti a non interferire in Libano».