Bush, il supervertice non basta

Era partito come una sorta di Gran Consiglio, l’incontro nel ranch texano di Crawford che George Bush aveva convocato per ieri mattina, e tutti aspettavano la dichiarazione che i portavoce del presidente avevano promesso.
A occhio, vista la presenza di tutti i big dell’amministrazione – il vice Dick Cheney, il segretario di Stato Condoleezza Rice, quello della Difesa Robert Gates nel suo primo assaggio dei piaceri della prateria texana che Bush adora e gli altri detestano, e poi il consigliere per la sicurezza nazionale Stephen Hadley e il capo degli stati maggiori riuniti generale Peter Pace – appariva il momento cruciale della «nuova strategia» che Bush deve annunciare a gennaio e la dichiarazione promessa costituiva un momento importante per i tanti giornalisti presenti, che odiano stare a Crawford perfino più dei big, ché almeno loro hanno la fortuna di andarsene subito.
E invece niente, o quasi. La dichiarazione di Bush è stata decisamente scarna e oltre tutto è cominciata con uno «stiamo facendo buoni progressi» che al momento aveva suscitato un certo allarme sulle sue condizioni mentali, poi rientrato quando si è capito che si riferiva all’andamento della discussione, non a quello del pantano da lui creato laggiù. Bush ha fatto il solito accenno ai soldati che muoiono («ho sempre in mente loro quando penso alla nuova strategia»), un «tocco umano» cui ormai ben pochi credono (secondo l’ultimo sondaggio perfino fra i repubblicani doc il favore per Bush è della metà di loro, il che porta a tre su quattro i contrari in generale), e poi l’annuncio che il lavoro per arrivare alla «nuova strategia» non è ancora finito: «Abbiamo ancora molte consultazioni da fare prima che io possa parlare al paese».
Dopo di ciò, nessuna domanda ammessa, nessuna indicazione sull’elemento di maggiore discussione che somiglia molto al classico bianco o nero americano (cominciare il ritiro delle truppe o aumentarle con l’invio di addirittura altri 30.000 uomini?), nessun accenno all’ormai quasi annosa questione di parlare o no con Iran e Siria che ha avuto il potere di apparire la cosa più «rivoluzionaria» partorita dal «consiglio dei saggi» capitanato dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton e nessun accenno al dubbio se gli Stati uniti stiano vincendo o perdendo questa guerra. (Forse non ha voluto accettare domande per evitare altre gaffe, si dicevano fra loro i delusi giornalisti dopo la breve esternazione bushana).
L’unica frase che con qualche sforzo si può considerare un’indicazione politica è stata questa: «La chiave del successo in Iraq è di avere un governo dotato della volontà di affrontare gli elementi che stanno cercando di impedire che quella giovane democrazia prevalga». Il che, se le parole hanno un senso, vuol dire che il governo attuale di Nouri al-Maliki di quella volontà non è dotato, il che riporta al contrastato incontro che Bush ha avuto con lui solo due settimane fa, quando aveva cercato di nascondere dietro a sorrisi e slogan ottimisti l’evidente disaccordo. Se nell’incontro di ieri lui e i suoi big abbiano discusso della «sopravvivenza» di Maliki non si sa per certo, ma le parole di Bush sembravano indicare che il primo ministro iracheno, colpevole di dovere il posto a uno come Moktad al Sadr, non solo è stato oggetto del loro incontro ma anche che il suo futuro nella «giovane democrazia» ha i giorni contati.
Per quanto riguarda le altre cose da discutere, l’avarizia di parole di Bush è servita solo ad alimentare le speculazioni. Le tv, per esempio, ricordavano il «questa guerra non la stiamo vincendo» di Gates mentre malignamente presentavano Dick Cheney – il protettore numero uno di Donald Rumsfeld – che scendeva con passo malfermo dall’aereo che lo aveva portato a Waco, cioè l’aeroporto più vicino a Crawford. Lo «scontro» fra Cheney e Gates, il successore di Rumsfeld, era dato infatti assolutamente per scontato, ma in mancanza di notizie si poteva solo «immaginare», tenendo ben conto – facevano comunque presente gli «speculatori» – che dopotutto Bush era quello che aveva licenziato Rumsfeld da cui concludevano che quello compiuto a Crawford non è stato un viaggio allegro per Cheney.
Dopo la sua apparizione senza domande Bush è stato investito da questioni urlate senza speranza, la più frequente delle quali riguardava la sentenza di morte contro Saddam Hussein. La Casa bianca ha adottato una sorta di «basso profilo» su questa storia, salvo per il fatto che, si è saputo, la forca per impiccarlo è di produzione americana. Con una precisazione: non è come quelle che si usavano nel Far West o nei linciaggi dei neri, questa è tecnologica. Ma cosa voglia dire non si sa.