Bush: «Guerra difficile, esercito più grande»

«Possiamo ancora vincere, con l’aiuto degli iracheni». Le parole pronunciate ieri da George Bush nel tradizionale messaggio di fine anno non sono incoraggianti: il capo della Casa bianca è partito da «abbiamo vinto» (alla fine dei combattimenti armati), è passato da «stiamo assolutamente vincendo» (prima delle elezioni di medio termine) a «non stiamo perdendo» (dopo le elezioni di medio termine, quelle sì inequivocabilmente perse), per arrivare a questa frase tristemente possibilista, che segna il punto più basso nella consapevolezza americana della possibilità di chiudere la partita in Iraq.
Una partita che Washington proverà comunque a vincere prima di andarsene. La spallata è infatti in arrivo: nello stesso messaggio di ieri, Bush ha teorizzato un esercito americano più ampio e potente di quello oggi a disposizione, e l’invio di nuove truppe in Iraq. La polemica divampava abbastanza silenziosamente da mesi, e ha visto la Casa Bianca e il Pentagono su fronti opposti. Bush chiedeva l’invio di nuove truppe in Iraq in aggiunta alle 140mila che già ci sono, per assestare all’insorgenza armata – massimamente a quella sciita – sei-otto mesi di fuoco e poi cominciare a fare le valige, affidando all’esercito iracheno il compito di controllare il paese. Al contrario, i generali chiedevano di accelerare il disimpegno americano e forzare il passaggio di consegne agli iracheni, riportando a casa una certa quantità di soldati americani.
Il conflitto è finito sul tavolo del neoministro della difesa Robert Gates, l’uomo che ha sostituito il falco Donald Rumsfeld alla guida del Pentagono (un uomo inviso ai generali, secondo i quali la guerra avrebbe potuto essere vinta inviando in Iraq un contingente forse doppio di quello che si trova oggi sul terreno). Ma prima ancora che Gates potesse esprimersi, il comandante in capo lo ha fatto per lui. Bush ha detto che «estremisti e radicali» sono i responsabili degli attacchi armati in Iraq (mille la settimana negli ultimi tre mesi secondo fonti dello stesso Pentagono), ha detto di voler attendere i rapporti di vari ministeri prima di annunciare un «cambio di strategia» in Iraq, ma ha anche chiarito che appoggerà «l’invio di nuove truppe», purché siano inviate per «obiettivi specifici», e «aggiustamenti tattici», da studiare in fretta. Si tratta di 15-30mila soldati, per un periodo di sei mesi-un anno. La Casa Bianca, continua Bush, promette un 2007 «di scelte difficili e di sacrifici».
Il presidente ha annunciato inoltre di aver chiesto al suo nuovo ministro della difesa di studiare un «aumento permanente delle dimensioni dell’esercito americano e del corpo dei marines». E questo è una grossa novità in un paese dove l’esercito è in crisi di vocazioni, sempre più spesso gli arruolatori vengono cacciati dalle università davanti alle quali si appostano, i passaporti e gli stipendi fissi non bastano più a convincere latinos e neri poveri a vestire la divisa, col rischio di farsi ammazzare in Iraq (già quasi tremila i morti americani) o altrove. E in un paese dove il servizio di leva non esiste più da quando Nixon lo abolì nel ’72, come parte del tentativo di suturare la ferita aperta dalla madre di tutte le sconfitte, quella in Vietnam. A cui l’Iraq, per alcuni versi, somiglia ogni giorno di più.
Secondo Bush, l’esercito andrebbe ingrandito di almeno 70mila soldati. I militari in servizio attivo oggi sono 1 milione e 300mila, ed erano oltre tre milioni all’epoca del Vietnam. Il «costo industriale» di cento soldati è di circa 1,2 milioni di dollari l’anno. Tanto per gli Usa, che hanno già speso 500 miliardi di dollari per le guerre in Iraq e Afghanistan e stanno discutendo se aggiungere altri 100 miliardi per il 2007.