Bush gioca nel Golfo il “match della vita”. La guerra al terrorismo è la lotta per il petrolio

La guerra al terrorismo tornerà presto a essere una guerra per il petrolio e il controllo delle riserve energetiche mondiali. Il ricordo dell’Afghanistan, come già quello dei Balcani, appare destinato a sfumare, inghiottito dai pozzi di oro nero del Golfo dove si trovano il 35%-40% delle riserve petrolifere mondiali e i giacimenti di gas più importanti dopo quelli dell’ex Unione Sovietica. Dallo Stretto di Ormuz a Bad el Mandeb, al canale di Suez, si incrociano in Medio Oriente tre dei sette check-point mondiali dove transitano ogni giorno 30 milioni di barili di greggio: tra i progetti di mitiche pipeline in Asia centrale e la realtà che gli Stati Uniti sono sempre fuori dall’Iran e dall’Irak, sarà ancora il Golfo del petrolio a dettare le strategie americane.
Undici anni dopo, quando nella notte tra il 16 e il 17 gennaio del ’91 George Bush padre e la coalizione internazionale bombardarono Baghdad per punire Saddam Hussein dell’invasione del Kuwait, la “madre di tutte le battaglie”, come l’ha ancora definita ieri in un discorso celebrativo il Raìs iracheno, non è finita. Non solo perché gli Stati Uniti ci hanno provato almeno un paio di volte con missili e operazioni di intelligence a far fuori Saddam, ma soprattutto perché non sono venute meno le ragioni di fondo che hanno scatenato quella guerra.
Dopo aver perso l’Iran nel ’79 con la fine dello Shah Reza Palhevi e l’ascesa di Khomeini e della Repubblica islamica, gli Stati Uniti si sono trovati in rotta di collisione anche con l’Irak, che nonostante le sanzioni dell’ONU rimane uno dei principali produttori mondiali e in questi mesi è tornato a rappresentare un cliente fondamentale per i russi: 4 miliardi di dollari di accordi commerciali in tre anni, un miliardo e mezzo negli ultimi sei mesi.
L’Irak, insieme all’Iran, costituisce l’ostacolo più coriaceo all’influenza americana nella regione e nel mondo mussulmano. I due Stati per otto anni, dal settembre dell’80 al luglio dell’88, si sono combattuti in un conflitto massacrante che ha fatto un milione di morti, la potenza militare irachena poi è stata sbriciolata nel ’91 ma né l’Irak ne l’Iran sono stati annientati, continuando a rappresentare, per motivi opposti, una linea di resistenza ineludibile sullo Shatt el Arab.
L’Irak laico e iper-nazionalista del Raìs, pur con tutte le sue contraddizioni laceranti, è l’ultimo bastione del pan-arabismo: lo sanno perfettamente i regimi mediorientali, preoccupati che un attacco americano a Baghdad possa diventare un nuovo motivo di manifestazioni e proteste di piazza. E oggi sono proprio le monarchie del petrolio come l’Arabia Saudita che non solo non vorrebbero una nuova guerra contro Raìs ma forse vedrebbero volentieri i soldati americani lasciare le basi insediate sul sacro suolo della Mecca e della Medina. L’Iran poi, è l’unico Paese mussulmano dove ha trionfato una rivoluzione islamica, è lo sponsor degli Hezbollah sciiti del Libano.
Sullo sfondo, e Saddam ne è consapevole, come pure gli alleati americani in questa area – dalla Turchia all’Arabia Saudita a Israele – si prepara una nuova “guerra al terrorismo”, fatta di pressioni militari e diplomatiche, dal forte aroma di oro nero. Il teatro delle operazioni rimane il Medio Oriente “allargato” che inizia alle porte di Trieste e attraversa i Balcani, il Mar Nero, la Turchia e il Caucaso arriva fino al Caspio per penetrare poi in Asia centrale fino ai confini con la Cina. Ma sono ancora l’Iran e l’Irak al centro delle grandi manovre americane. Il rafforzamento dei legami economici tra Mosca e Baghdad, che in due anni ha venduto sui mercati 30 miliardi di dollari di petrolio non solo in Europa e in Asia ma anche negli Stati Uniti, indebolisce i tentativi americani di indurire le sanzioni contro l’Irak. Per la verità americani e inglesi, oltre a sorvegliare con missioni aeree quotidiane il Nord e il sud del Paese, controllano strettamente anche il comitato sanzioni e intervengono a bloccare i contratti firmati dagli iracheni. Ma questo a Washington non basta. L’Irak, in base agli accordi con le Nazioni Unite, può infatti scegliere i partner commerciali che vuole e continuare a usare l’arma del petrolio per allargare i suoi margini di manovra diplomatica ed economica.
L’Irak, come l’Iran, non è più il paese isolato che avrebbero voluto. L’anno scorso ha venduto petrolio per 15 miliardi di dollari, occupando il quarto posto tra gli esportatori della regione, ed è tornato tra i primi paesi importatori del Medio Oriente, un segnale che Baghdad sta uscendo, lentamente, da un’economia di guerra, pur restando sotto il ferreo controllo della famiglia del Raìs. Ma c’è dell’altro. L’Irak incassa 2 miliardi di dollari l’anno con il contrabbando e le vendite illegali di petrolio che sfuggono completamente i controlli dell’Onu. Questo significa che Saddam, costretto dalle sanzioni a depositare i suoi introiti in un conto a New York che serve a pagare le importazioni e i danni di guerra, può disporre liberamente dei fondi necessari, se non a rifornire gli arsenali di armi di distruzione di massa, a pagare l’esercito, i suoi occhiuti servizi segreti e il consenso dei clan e delle tribù che sostengono il regime.
Saddam ha potuto così tornare a esercitare una politica di potenza regionale usando l’arma del petrolio che attirare nella sua sfera vicini come la Siria e la Giordania, interessati a convogliare con le pipeline l’oro nero di Baghdad. Mentre restano complessi e ambigui i rapporti con la Turchia: dai confini nel Kurdistan passa il contrabbando di petrolio che tanto gli americani e Ankara, come sta facendo in queste ore il premier Bulent Ecevit in missione negli Stati Uniti chiede insistentemente garanzie che una nuova guerra all’Irak non apra la strada alla costituzione di un Kurdistan autonomo o indipendente.
Perché il Raìs se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Negli anni Ottanta ha combattuto su commissione e con i fondi delle monarchie petrolifere del Golfo un'”utile” guerra di contenimento dell’espansionismo sciita iraniano, e poi, nel corso del tempo, ha represso in un bagno di sangue il separatismo dei curdi al Nord e degli arabi sciiti al Sud.
Così come il Golfo del petrolio rimane ancora la preda più ambita della superpotenza americana. Il Caspio e l’Asia centrale non sono infatti per l’industria più strategica del mondo il nuovo Medio Oriente. O meglio non lo sono ancora. Estrarre un barile in Azerbaijan costa dai 10 ai 12 dollari, in Kazakhstan da 12 a 14, più o meno quanto nel mare del Nord ma molto di più che in Irak (un dollaro), Kuwait e Arabia Saudita (3 dollari) o in Iran (8 dollari). Per questo la prossima guerra al terrore seguirà ancora un vecchio detto di Lord Curzon: “In medio Oriente ogni goccia di petrolio equivale a una goccia di sangue”.