Bush-Cheney L’effetto petrolio

A chi abbia seguito in diretta l’intervento del vice-presidente Usa Dick Cheney al programma Meet the press non deve essere certamente sfuggita la connessione tra i due temi principali dell’intervista: la guerra di Israele contro i palestinesi e la crisi energetica americana. Cheney ha apertamente detto che la decisione della Lega araba di chiedere ai paesi membri di sospendere ogni relazione con Israele è una sconfitta. Egli non ha però tentato di attribuirne la responsabilità ai paesi arabi. Inoltre Cheney non ha nascosto la sua irritazione per l’uso da parte di Israele degli F-16 americani nei bombardamenti delle città palestinesi. Complessivamente è uscita rafforzata l’impressione che, contrariamente al periodo clintoniano, gli Usa non vogliano farsi trascinare da Israele nel vortice mediorientale. Il fatto che Cheney abbia dato massima importanza alla risoluzione della Lega araba, un organismo completamente amorfo ed incapace di coordinare alcunché sul piano concreto, è indicativo della preoccupazione dell’attuale governo Usa circa la stabilità dei regimi dei paesi arabi satelliti.
Con l’amministrazione Bush II-Cheney, ove il vice presidente è la vera testa pensante della Casa bianca, Washington dimostra di essere consapevole che quanto più dura la guerra d’Israele contro i palestinesi tanto più si rendono fragili i governi dei paesi arabi amici. Ciò vale non solo per l’Egitto e la Giordania ma anche per l’Arabia saudita e lo Yemen. In altri termini, la guerra contro i palestinesi sta facendo saltare la relazione – stabilita a partire dagli anni di Johnson – tra Israele e i regimi arabi filo-occidentali. Tel Aviv veniva allora considerata come uno strumento strategico per la sua capacità di intervento contro i movimenti nazionalisti della regione, il nasserismo in Egitto ed i regimi baathisti in Siria ed Iraq. Tale concezione venne addirittura rafforzata dal voltafaccia anti-Urss di Sadat preparato prima della guerra dell’ottobre 1973. La stessa pace separata tra Egitto ed Israele, senza la quale l’invasione israeliana del Libano nel 1982 non sarebbe stata possibile, era vista nell’ottica dell’isolamento della Siria e dell’Olp. Da anni ininterrotti aiuti militari affluivano, con il consenso israeliano, alla Giordania ed all’Arabia saudita, mentre l’Egitto di Mubarak si trasformò rapidmente nel secondo percettore mondiale di aiuti americani dopo Israele. L’apoteosi di questa strategia venne raggiunta nella guerra del Golfo ove gli Stati uniti, grazie all’appoggio dell’Egitto e della Siria, riuscirono a sbarcare ed installarsi nella regione quali garanti delle petro-monarchie e della stabilità delle fonti energetiche cui attingono europei e giapponesi.
Oggi di regimi nazionalisti nel senso terzomondista del termine non ne esistono più. Tutti vogliono essere amici degli americani (in prospettiva ciò vale anche per i fondamentalisti islamici finanziati dal regime saudita). Permangono però due cancri che non fanno che allargarsi: la guerra contro i palestinesi e quella contro l’Iraq. Ambedue sono giustamente percepite dalla totalità della popolazione del mondo arabo-islamico, che si estende dalla Mauritania all’Indonesia, come guerre americane condotte contro i popoli arabi. Più esse perdurano, più si manifestano i limiti delle politiche finanziarie e di sostegno militare messe in atto dagli Usa per mantenere in piedi regimi satellizzati. I soldi erogati da Washington se li prendono le classi ricche, mentre l’assorbimento degli aiuti militari Usa impone a questi paesi una composizione del bilancio statale sfavorevole alle spese sociali. La perdita di legittimità sociale e nazionale di questi governi fa apparire gli Usa per quello che sono: una potenza occupante che combatte contro due popolazioni civili. Cheney era sicuramente consapevole di questo stato di cose. Parlando dell’Iraq ha sostenuto la necessità di rifocalizzare la politica delle sanzioni affermando che secondo i paesi amici della regione la politica attuale produce prevalentemente delle ripercussioni negative. Gli americani vogliono rimanere la forza di occupazione nella zona del Golfo ma non possono esserlo apertamente, hanno bisogno di una copertura politica suffcientemente forte nell’insieme dell’area.
La presenza americana nel Golfo e in Medio Oriente si collega sia con la crisi energetica attuale, sia con la strategia del governo Bush II-Cheney di sostenere le politiche espansionistiche delle multinazionali del settore. Sul tema dell’energia Cheney ha detto che l’alto prezzo della benzina negli Usa è dovuto al gioco della domanda e dell’offerta. Quando l’intervistatore gli ha fatto notare che i profitti delle compagnie distributrici erano aumentati del 53%, Cheney ha respinto ogni suggerimento volto a regolamentare i margini di profitto. Secondo il vice presidente la soluzione va ricercata nella costruzione di nuove raffinerie e nello sfruttamento di ulteriori giacimenti petroliferi e dell’energia nucleare. In questo contesto il vice di Bush ha svolto due osservazioni molto importanti sul piano geopolitico. Nel breve periodo gli Usa devono agire sull’Opec per indurre questi paesi ad aumentare la quantità di greggio. Nel lungo periodo Washington deve accelerare lo sviluppo di fonti petrolifere esterne all’Opec specie valorizzando il Mar Caspio.
Qui entra in ballo il Medio Oriente. Morti i movimenti nazionalisti, la presenza Usa è minacciata dalla delegittimazione dei governi arabi amici, causata dalla guerra che gli Usa conducono contro l’Iraq e – appoggiando Israele – contro i palestinesi. Tuttavia allo stato attuale Washington non è interessata a vedere i paesi arabi usare l’Opec per ricostituirsi un minimo di legittimità e quindi vuole frenare la crisi li avviluppa. Rifocalizzare la politica delle sanzioni dunque ma anche, non poi tanto implicitamente, quella verso Israele. Invece lo sviluppo di fonti petrolifere esterne all’Opec diminuiranno la capacità dell’organizzazione dei paesi produttori ad esercitare una pressione sui prezzi regolando la quantità di greggio estratta. Qui emerge il ruolo dell Mar Caspio e dell’Asia centrale ex-sovietica riportando in primo piano la rotazione dell’asse strategico Usa iniziatasi nel 1992 dopo la dissoluzione dell’Urss.
Dal 1945 in poi la politica mondiale Usa è stata di controllare direttamente le fonti di energia, combinando interventi militari e investimenti multinazionali con il sostegno a regimi satelliti come la monarchia saudita e la dittatura dello scià di Persia. Oggi la presenza americana nel Golfo deve diventare parte di una strategia volta ad incorporare le zone del Caucaso e dell’Asia centrale ex-Urss. Per assicurarsi tale dominio – e quindi possedere tutta una serie di staterelli fantoccio – è necessario unificare la presenza militare in Medio Oriente con quella nei Balcani (Kosovo e Albania) che si proietta contro la Russia e si collega alla fedelissima Turchia. L’attuazione di questa linea geopolitica – già concepita da Clinton durante la guerra alla Jugoslavia ma arenatasi per via del suo impegno diretto a fianco di Israele – richiede molte spese militari, molti investimenti (agevolati e sussidiati) da parte delle multinazionali Usa, molti soldi per sostenere gli staterelli di comodo. Richiede anche e soprattutto che nel frattempo non frani il terreno sui cui poggiano le truppe di occupazione Usa nel Golfo ed in Arabia.