Teheran non ha altra scelta che accettare la sospensione delle attività di arricchimento dell’uranio, altrimenti gli Stati uniti torneranno al Consiglio di sicurezza e si aprirà la strada per misure «più efficaci». Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, all’indomani della proposta di Washington di avviare contatti diretti con l’Iran a condizione che Tehran sospenda ogni attività di arricchimento dell’uranio, cessi qualsiasi sostegno ai movimenti iracheni contrari alla presenza Usa, agli Hezbollah e alla resistenza palestinese, è tornato a minacciare l’Iran: «La mia reazione – ha sostenuto il presidente americano al termine di una riunione del gabinetto della Casa Bianca – è che ora tocchi a loro decidere…», «Se continueranno nella loro ostinazione…», allora la comunità internazionale agirà di concerto» e «la risposta …sarà efficace». Il presidente Bush – mentre all’ambasciata britannica a Vienna si riuniva il gruppo 5+1, i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania, per discutere il «caso iraniano» – ha quindi confermato la determinazione Usa di rivolgersi al Consiglio di sicurezza per ottenere una condanna di Tehran e nuove sanzioni.
Gli Stati uniti, con la loro «apertura», che Tehran non poteva che respingere, sembrano aver voluto superare le perplessità europee e il netto no della Cina e della Russia all’adozione di misure coercitive contro l’Iran. L’«apertura» Usa deriverebbe inoltre dalla necessità di costruire un fronte internazionale in grado di sostenere l’assedio a Tehran e, un domani, un’eventuale blitz, in un momento di grave difficoltà dell’Amministrazione, a causa dell’andamento disastroso della guerra in Iraq e in Afghanistan, a pochi mesi dalle elezioni di mediotermine del prossimo novembre. Parallelamente al pressing diplomatico il governo di Washington ha già adottato, unilateralmente, un insieme di misure economiche e finanziarie tendenti a soffocare l’Iran impedendogli di accedere al sistema bancario internazionale. Con qualche successo. Negli ultimi mesi la svizzera Ubs Ag e l’olandese Abn Amro Holding hanno annunciato di aver posto fine ad ogni operazione con il governo iraniano dopo che nei loro confronti erano state aperte due inchieste del Dipartimento della Giustizia Usa. Parallelamente, agitando lo spauracchio iraniano-sciita, Washington sta cercando di legare ancor più a sé i paesi arabi – sunniti- del Golfo, la Giordania e l’Egitto, per imbarcarli nella «crociata contro il terrorismo» e convincerli ad abbandonare al loro destino i palestinesi e la resistenza irachena e a sostenere il tentativo americano-francese – tramite la Hariri Inc. l’ultradestra libanese e Walid Jumblatt – di disarmare la resistenza libanese e palestinese e portare al potere in Siria, al posto dell’attuale regime alawita-sciita del presidente Bashar, l’ex vicepresidente sunnita Abdel Halim Khaddam e i fratelli musulmani. Quasi un risarcimento di Washington ai sunniti per «aver dato» agli sciiti la Mesopotamia. Il governo di Tehran, da parte sua, si è dichiarato pronto a colloqui diretti con Washington ma ha subito respinto le condizioni poste dagli Usa. «Le proposte Usa non costituiscono nulla di nuovo» ha commentato ieri il ministro degli Esteri iraniano Manucher Mottaki. L’Iran non accetterà di sospendere l’arricchimento dell’uranio, come chiesto da Washington. Mottaki, appena rientrato da un viaggio a Baghdad nel corso del quale aveva annunciato il congelamento di eventuali colloqui con gli Usa per «stabilizzare» l’Iraq, ha poi aggiunto che le proposte Usa non sarebbero altro che «un tentativo della Casa Bianca di riparare le smagliature con gli alleati europei» e «un pretesto per coprire i fallimenti americani in Iraq e nella regione». Il braccio di ferro si è quindi spostato nella riunione dei cinque grandi più la Germania nella quale gli Usa avrebbero ottenuto di far passare sia un pacchetto di «incentivi», se Tehran decidesse di arrendersi, sia, in caso contrario, un impegno collettivo a rimandare il dossier al Consiglio di sicurezza in vista dell’adozione di sanzioni contro Tehran. Mosca e Pechino hanno salutato positivamente l’apertura di Washington ma non sembrano ancora del tutto convinte di accettare il varo di misure punitive contro Tehran, in particolare sotto l’articolo VII, che implica l’uso della forza, primo passo verso future azioni belliche.