Buon anno, la guerra continua. La finanziaria del 2007 attribuisce alla spesa militare italiana 21 miliardi di euro: è il doppio del bilancio di competenza per l’università e la ricerca ma ci colloca al settimo posto mondiale come spesa militare. Partecipiamo alla mutazione genetica della Nato che, dopo la guerra umanitaria contro l’ex Jugoslavia, è diventata forza d’intervento in tutto il mondo, dove ha dislocato 50 mila uomini, dai Balcani all’Afghanistan al Mediterraneo. E i nostri soldati, recitano i documenti strategici delle Forze Armate, sono pronti non a difendere il paese secondo il dettame costituzionale (artt. 11 e 52), ma anche «aree di interesse nazionale» in tutto il mondo al fine di salvaguardare i nostri interessi, se necessario con interventi «di prevenzione anche lontano dalla madrepatria» (con buona approssimazione alla guerra preventiva), anche in difesa del Muro di Shengen dall’«invasione» degli immigrati.
Così, di fronte al fallimento in Iraq, siamo venuti via da quella guerra fatta contro l’Onu e contro il popolo iracheno, ma esattamente pochi giorni fa nel Consiglio di sicurezza abbiamo votato a favore della continuazione della missione militare d’occupazione portata avanti dalla coalizione dei volenterosi capitanata dagli Stati uniti. E partecipiamo a una guerra, quella in Afghanistan, «con orgoglio», ha dichiarato a Kabul un inedito mascelluto Romano Prodi, nonostante la missione Onu abbia cambiato di segno da quattro anni e mezzo e sia diventata a tutti gli effetti della Nato. Ma c’è la svolta lessicale. Infatti non la chiamiamo guerra, pur partecipando ai comandi integrati che indicano all’aviazione Usa e Nato gli obiettivi «talebani» sul campo, con un numero così pesante di stragi fra i civili che quella guerra aerea, dalla quale dipende la fortuna delle truppe occidentali e quella del presidente Karzai, ha indebolito il governo afgano e allargato il seguito e l’influenza dei talebani che controllano più del 50% del territorio operando ormai dentro la cosiddetta «zona italiana» da sempre raccontata – chissà perché – come immune dal conflitto. Se dopo l’11 settembre l’obiettivo era fermare il terrorismo, di Al Qaeda o quant’altro ectoplasma, ora nell’area ad essere destabilizzato è addirittura il Pakistan – a partire dalle aeree tribali – dove i talebani sono stati inventati. Una destabilizzazione iniziata ben prima dell’estremo tentativo di Benazir Bhutto.
Siamo schierati in Libano dopo la guerra criminale di bombardamenti aerei israeliani dell’estate 2006, a seguito del rapimento sul confine di un militare israeliano. Avremmo dovuto schierarci alla frontiera, invece siamo dentro il territorio libanese con il dichiarato compito di tenere a bada la forza di Hezbollah e di influire positivamente sul processo democratico libanese. Hezbollah resta forte, il Libano è sempre nel caos.
Ma il fatto più grave di tutti è che le chiacchiere sull’impegno verso la questione palestinese, quella sì bisognosa di una «forza di interposizione» per liberare i Territori occupati ancora dal 1967, chiacchiere erano e chiacchiere sono rimaste. Anzi se ne ricava l’impressione che, alla fine, ad avvantaggiarsi realmente della nostra missione in Libano sia stata proprio la leadership israeliana con la quale abbiamo continuato a gestire un Trattato militare che sostiene da anni le sue Forze armate: ha infatti ottenuto l’isolamento politico ma soprattutto materiale dei palestinesi, che nell’angolo e affamati, si sono divisi ormai in un conflitto intestino tra Hamas e Fatah. Ora i palestinesi, tutti i palestinesi, attraversati dal Muro, dispersi in milioni di profughi nelle baraccopoli del Medio Oriente impediti nel movimento e in ogni diritto elementare e sempre più frazionati dagli insediamenti israeliani, vedono la prospettiva dello Stato di Palestina come una favola. La favola raccontata al recente vertice di Annapolis che rimanda a data indefinita il destino di milioni di disperati. È questo il risultato, il 2007 è stato l’anno della scomparsa della questione palestinese nel silenzio quotidiano che non conta nemmeno più lo stillicidio di «uccisioni mirate» causate ogni giorno da parte dell’esercito israeliano.
Infine siamo con migliaia di uomini in Kosovo – dove dopo la guerra è andata in onda una feroce contropulizia etnica contro le minoranze serbe e rom, a garantire il rispetto degli accordi di pace di Kumanovo che posero fine alla guerra «umanitaria» contro l’ex Jugoslavia – fatta contro il parere delle Nazioni unite – assunti poi nella Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu con cui si riconosceva il diritto alla Nato di occupare il territorio ma salvaguardando la sovranità della Serbia. Ora stiamo per costringere gli stessi militari a fare il contrario, vale a dire ad andare contro il quadro di legalità che ha istituito la missione dell’Alleanza atlantica. Perché arriverà la nuova missione «civile e di polizia» dell’Unione europea, con la quale si rileva l’amministrazione fallimentare dell’Unmik-Onu e si avvia la gestione «indolore» dell’indipendenza etnica del Kosovo – contro il Consiglio di sicurezza Onu, la Serbia e la Russia (e la Cina). Incuranti del fatto che la polveriera balcanica può riaccendersi subito.
Serviranno questi preparativi sui fronti di guerra, non chiamata tale ma così diventata in itinere, cambiando le carte in tavola, a «fermare il terrorismo« e a «difendere la democrazia»?
In realtà accade il contrario. Nessuna guerra riesce a fermare il terrorismo. E accade che tutte queste missioni militari all’estero siano state in questi giorni «prorogate» d’ufficio dal governo senza discussione. E accade che il nostro parlamento non sappia nulla di come e perché l’Italia si sia avventurata in uno spregiudicato mercato di armi sofisticate e abbia allargato, invece che restringere come da promesse elettorali, le sue servitù militari. Così con il Pentagono abbiamo firmato il memorandum d’intesa nel programma, costosissimo, degli F-35 Lightning, il cacciabombardiere Usa Joint Strike Fighter avviando nientemeno che «il più grande e tecnologicamente più evoluto programma della storia dell’aviazione», secondo le parole del sottosegretario alla difesa Forcieri. Lo stesso vale per le basi americane. Chiudiamo la Maddalena ma, manco fossimo al supermercato, cash&carry, allarghiamo la base di Vicenza ben sapendo che diventerà per gli Stati uniti il trampolino di lancio per operazioni militari di proiezione in tutto il mondo, e ristrutturiamo quella strategica di Sigonella. E, dulcis in fundo, il 2007 è stato l’anno dello scudo antimissile che Bush a tutti i costi vuole disporre subito in Europa, nella Repubblica ceca e in Polonia, alla frontiera russa, con la motivazione, insensata perfino per l’Intelligence americana, del pericolo dell’atomica iraniana.
Abbiamo apprezzato l’interrogativo del ministro degli esteri Massimo D’Alema, preoccupato delle reazioni russe all’imposizione dell’indipendenza del Kosovo: «Ma era davvero questo il momento di andare a piantare missili qui e là in Europa?». Sante parole. Ma allora perché, di nascosto dal parlamento, il ministro della difesa Parisi nel febbraio di quest’anno che muore è corso a Washington a firmare l’accordo quadro che dice sì allo scudo antimissile in Europa, in Italia e nel mondo? Perfino il presidente Napolitano dichiara che è ora che «ne parlino le Camere». Buon anno, la guerra continua.