Bulgarelli: “Un referendum consultivo per smantellare gli armamenti nucleari e sulla Nato in Italia”

CAMERA DEI DEPUTATI N. 5971

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE d’iniziativa del deputato BULGARELLI

Audizione di un referendum consultivo sullo smantellamento degli armamenti nucleari sul territorio nazionale e sull’adesione dell’Italia alla NATO

Presentata il 5 luglio 2005

Onorevoli colleghi! – Gli enormi cambiamenti che si sono verificati nel corso degli ultimi cinquanta anni hanno fortemente ridimensionato la validità del modello di difesa introdotto con l’approvazione del trattato multilaterale che ha dato vita alla Nato (North Atlantic Treaty Organisation – Organizzazione del Trattato Nord Atlantico). A questa struttura di difesa multinazionale, creata nel 1949 in supporto al Patto Atlantico, (firmato a Washington il 4 aprile dello stesso anno), ha aderito sin dall’inizio l’Italia, insieme a Gran Bretagna, Canada, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Portogallo.
Il trattato costitutivo della Nato ha carattere strettamente difensivo, e si rifà, in verità impropriamente, all’art. 51 della Carta Onu, che recita testualmente: «Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere ed il compito spettanti, secondo la presente Carta al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».
Tale articolo prevede effettivamente l’uso della forza da parte di uno Stato, a patto che esso sia in funzione auto-difensiva, in prospettiva di un attacco imminente e fino all’attivazione del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia la dottrina internazionalistica ha da tempo messo in rilievo come l’art. 51 preveda l’uso della forza esclusivamente nel caso in cui uno Stato debba difendersi da un attacco armato, e non nel caso in cui l’attacco sia imminente ma non attuale. In effetti, il ruolo affidato alla Nato va letto nel contesto della cosiddetta “guerra fredda”, fondata sulla contrapposizione strategica tra il blocco delle potenze occidentali e quello facente capo all’Unione Sovietica, con, in più, funzioni di monitoraggio e contenimento del “fianco sud-est” (Grecia, Turchia). In ragione di ciò, la Nato fu destinataria, fin dalle origini, di una mission articolata: da una parte, la difesa di tipo strettamente militare, volta a fronteggiare l’arsenale nucleare sovietico, fu improntata in chiave di “deterrenza”; dall’altra, proprio in considerazione della contrapposizione sistemica tra i due blocchi, obiettivo parallelo della Nato divenne quello di consolidare la coesione politico-culturale dei partner europei nel segno dell’egemonia culturale e ideologica degli Usa. Nel mezzo secolo della “guerra fredda”, la Nato non intervenne militarmente in alcuna area, anche laddove si determinarono situazioni di crisi, come nel Mediterraneo. Ciononostante, centinaia di basi Usa e Nato furono insediate in Europa e, di queste, quasi 150 nella sola Italia. Oggi le basi militari Usa nel mondo conosciute sono oltre 850, il doppio di quelle dell’impero romano d’occidente nel momento della sua massima espansione – II sec. d.c., quando esso si estese dall’Atlantico al Caucaso, al Sahara, alla Britannia – e un terzo in più di quello vittoriano, sui cui territori, 29 milioni di chilometri quadrati abitati da 390 milioni di persone, agli albori del XX secolo non tramontava mai il sole, come con malcelata nostalgia ricorda Samuel Huntigton in un suo celebre libro. Riguardo questo impressionante dispiegamento bellico, sono sempre più numerosi gli analisti che ritengono che esso comporti un sostanziale depotenziamento dello stesso concetto di sovranità territoriale e, del resto, gli esperti militari, quando si trovano a dover descrivere il segno della supremazia Usa sul pianeta, ricorrono al termine “footprint” –“impronta”-, che non evoca le immagini classicamente legate ai conflitti bellici – bombardamenti, invasioni, occupazioni manu militari- quanto piuttosto le moderne caratteristiche reticolari della presenza globale americana nel mondo, non esente da venature che pare lecito definire neocolonialiste. In alcune zone la concentrazione di insediamenti Usa e Nato è addirittura parossistica, come a Okinawa, piccola isola del Pacifico, che “ospita” ben 38 basi militari americane, o come in Sardegna, dove è concentrato il 66% delle basi e servitù militari, italiane e non. Una presenza così massiccia non può non condizionare in maniera rilevante l’economia delle regioni interessate e scadenzare i tempi di vita delle popolazioni, alle quali è progressivamente sottratta la ricchezza derivante dall’utilizzo paesaggistico del proprio territorio, in conseguenza dell’inquinamento ambientale e dell’esproprio di vaste porzioni di esso e, spesso, è concesso usufruire dei beni naturali (il mare, la spiaggia, il verde) solo in subordine ai tempi delle attività belliche (le esercitazioni, le manovre militari, i trasporti di armamenti), o, infine, è concesso esercitare le attività necessarie alla propria sussistenza solo nella misura in cui esse siano compatibili con le esigenze militari. Questo sistema di servitù che pende sul capo della gente disegna dunque un concetto di sovranità –di spoliazione di sovranità– molto più complesso della semplice espropriazione di territorio e ha determinato, nel nostro paese, una forte opposizione da parte di moltissime associazioni della società civile, molte delle quali concertano da tempo un’azione diffusa sull’intero territorio nazionale, come è emerso, per esempio, in occasione del convegno nazionale tenutosi l’11 e il 12 novembre 2004 a Pisa, significativamente intitolato “Mediterraneo Parabellum”.
Alla presenza di insediamenti militari è legata inoltre un’altra problematica particolarmente scottante, riguardante la presenza di numerosi ordigni nucleari stoccati nelle basi. Secondo lo studio condotto dal Natural Resources Defence Council, sarebbero 40 le testate nucleari stoccate nella base di Torre di Ghedi e 50 quelle custodite a Aviano, della potenza variante dai 0,3 a 170 chilotoni (quella della bomba sganciata su Hiroshima era di circa 15 chilotoni), pronte a essere lanciate dai Tornado della 102esima e della 154esima squadriglia del sesto stormo dell’aeronautica italiana. Il munizionamento nucleare, inoltre, viene gestito da un’unità speciale statunitense, lo 831o squadrone Muns, agli ordini diretti ed esclusivi dello Stato Maggiore Usa; tale unità è anche l’unica ad avere accesso ai bunker dove le testate sono custodite e, più in generale, a garantire la manutenzione degli ordigni. Il documento ufficiale National Security Strategy, risalente al 1997, definisce tali ordigni “forze nucleari strategiche che costituiscono un’assicurazione vitale per un futuro incerto, una garanzia dei nostri impegni per la sicurezza degli alleati e un deterrente per coloro che contemplino l’acquisizione o lo sviluppo di loro arsenali atomici”, ma la Direttiva 60, promulgata dal Presidente Clinton, prevede che le armi nucleari sub-strategiche dislocate in Italia e in Europa possano essere impiegate “contro soggetti o gruppi non presenti al livello istituzionale di Stato, contro i loro centri operativi che dispongano di mezzi atomici di distruzione di massa”. La Direttiva 60 è stata integrata nella precedente strategia dell’Alleanza senza essere sottoposta all’approvazione dei Parlamenti dei paesi alleati e ciò pone un problema interpretativo rispetto all’istituto della cosiddetta “co-decisione”.
Secondo le decisioni prese a Gleneagles dal Nuclear Planning Group della Nato nell’ottobre del 1992, “una particolare considerazione verrà estesa bilateralmente dagli Stati Uniti ai Governi eventualmente coinvolti nell’impiego di armi atomiche”. Tuttavia, a parere di numerosi esperti militari, rimarrebbe tuttora in vigore la direttiva enunciata nel 1962 dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa Charles E. Johnson (Memorandum, Charles E. Johnson for the record, “President’s Decisions at the Meeting on Nuclear Weapons Requirements on May 3, 1962), che recita: “Conseguentemente all’impegno Nato su modalità nucleari della difesa comune, gli alleati non nucleari dell’alleanza in caso di guerra assumono a tutti gli effetti il ruolo di potenze nucleari”. Ciò pone drammatici interrogativi sulla catena di comando che si attiverebbe in caso di proclamato stato di emergenza o di guerra in relazione all’utilizzo dei dispositivi “nazionali”, il cui controllo, di fatto, verrebbe sottratto ai poteri decisionali dei rispettivi Governi e riservato unicamente ai comandi Usa e Nato in Europa.
In undici porti italiani, infine, è previsto l’attracco di navigli a propulsione nucleare; tale attività comporta evidenti rischi per la popolazione civile, vista la possibilità che possano determinarsi incidenti dalle conseguenze gravissime per la salute pubblica e per l’ecosistema, soprattutto perché, nonostante la normativa vigente in sede europea preveda l’obbligo di fornire adeguata informazione alla popolazione civile riguardo i rischi derivanti da incidente nucleare e individui le autorità e gli enti cui spetta il compito di predisporre i piani di emergenza (Direttive Euratom 80/386, 84/467, 84/466, 89/618, 90/641 e 92/3 in materia di radiazioni ionizzanti), a tutt’oggi, tali disposizioni vengono disattese dal governo italiano e non viene fornita alla popolazione adeguata informazione a riguardo di eventuali emergenze nucleari; in particolare, non sono noti – tranne che, parzialmente, per i porti di La Spezia e Taranto– i piani di emergenza predisposti dalla Marina militare di concerto con le Prefetture. Ciò pone un altro rilevante problema concernente la sovranità nazionale. Il nostro paese, infatti, con referendum popolare dell’8 novembre 1987, si è espresso a larghissima maggioranza (80,06%) per la chiusura delle centrali nucleari esistenti e contro la costruzione di nuove. E’ dunque paradossale che i rischi che si erano voluti evitare mediante l’abolizione del nucleare a uso civile siano indirettamente reintrodotti dalla presenza di numerosi ordigni bellici e dal transito e attracco di navigli a propulsione nucleare, soggetti, quest’ultimi, a incidenti dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche, come dimostra il caso del sottomarino Hartford, incagliatosi al largo dell’isola della Maddalena nell’ottobre del 2003.
Ma altre considerazioni vanno svolte in merito al permanere del nostro paese in seno all’Alleanza Atlantica. Negli anni ‘70/’80 del secolo scorso, infatti, con il progressivo tramontare della potenza sovietica, la politica militare della Nato si è fatta più spiccatamente offensiva. Nel 1978 Zibgnew Brzezinski, National Security Adviser del Presidente americano Carter, elaborò il concetto di “arco di crisi” per il fianco sud della Nato, per applicare il quale, nel 1983, venne costituito il CENTCOM (Central Command), con competenza su circa 40 paesi tra Mediterraneo e Golfo e la Rapid Deployment Force. In quegli stessi anni, l’Amministrazione Usa passò dalla filosofia della deterrenza a quella della “compellenza”, criterio che prevedeva l’adozione di “ogni politica che tenda ad agire su un dato scenario in modo da costringere l’avversario ad adottare quelle politiche che meglio si adattano ai propri interessi”. Al Consiglio Atlantico di Roma del 7-8 novembre 1991 venne quindi elaborato il “Nuovo concetto strategico dell’Alleanza atlantica” e istituito il Consiglio di cooperazione del Nord Atlantico (Nacc) che inizierà le sue attività il 20 dicembre 1991. Ma è nel gennaio 1994, al vertice di Bruxelles, che venne elaborata la “nuova” Nato, a partire dal lancio del programma Partnership for peace, volto all’allargamento dell’alleanza a Est e preludio per la radicale trasformazione, avvenuta il 24 aprile del 1999, dello statuto dell’Alleanza che, ampliando aree e motivazioni di intervento, da trattato difensivo si trasformò ufficialmente in trattato di intervento globale in tutto il mondo. Al centro di questa trasformazione vi è il “nuovo concetto strategico” (The Alliance Strategic Concept), e la Defense Capabilities Initiative, che prevedono che la Nato utilizzi ora le sue forze militari come strumento di gestione delle crisi, di intervento e di proiezione della forza, estendendo l’area d’azione alla periferia dei paesi membri (Parte II, 20), nonché a tutte le aree in cui vi sia il pericolo di interruzione del flusso di risorse vitali, cioè energetiche. Perno della nuova strategia è la collaborazione con la Russia e l’allargamento dell’alleanza a Est, mentre nel Mediterraneo viene rafforzata la cooperazione militare con Israele e alcuni paesi arabi (Egitto, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia).
Alla luce dei passaggi fin qui sommariamente accennati, appare opportuno valutare sotto una luce radicalmente nuova il ruolo strategico della Nato. Il nemico di un tempo, l’ex Unione Sovietica, è oggi tra gli alleati su cui si fonda la nuova partnership globale, il blocco di paesi dell’Est, un tempo sotto la sfera di influenza sovietica, è membro dell’Alleanza o è in procinto di entrarvi a far parte, il controllo del Mediterraneo non è più in discussione e con esso sono tramontate le ragioni di carattere difensivo che spinsero molti paesi, tra i quali l’Italia, ad aderire all’Alleanza Atlantica.
Queste ragioni vengono tanto più vanificate dalla intrinseca trasformazione della Nato da struttura difensiva in struttura di controllo egemonico e proiezione, di fatto, dell’egemonia Usa sul pianeta. In una parola, l’interesse della sicurezza nazionale italiana non coincide più con le strategie messe in atto dalla Nato.
Tale approccio strategico, inoltre, sta dimostrando in modo sempre più evidente i propri limiti e la propria inadeguatezza ad affrontare pericoli che non sono più determinati da conflittualità di tipo “tradizionale” tra gli stati, ma da cause ben diverse – legate molto spesso agli squilibri socio-economici imposti dai paesi più ricchi – che sempre più spesso generano fenomeni terroristici di caratura globale, contro i quali alcuna funzione di deterrenza possono svolgere gli insediamenti militari di tipo convenzionale che anzi, paradossalmente, acuiscono l’eventualità di attentati e, dunque, l’insicurezza per i paesi che li ospitano. E’ necessario quindi superare la cosiddetta “logica securitaria”, sottesa alle ragioni costituenti della Nato, e prendere atto che il modello di sicurezza che a esse si ispirava dimostra oggi tutta la sua inefficacia e obsolescenza proprio nell’adozione di tecniche e strumenti che sono intrinsecamente in contraddizione con gli obiettivi che si prefiggono: la pace e la sicurezza del paese. Appare dunque del tutto ragionevole considerare esaurite le motivazioni dell’adesione italiana alla Nato e sottoporre alla volontà popolare l’opportunità di non rinnovare per il futuro tale adesione.
Sta crescendo sempre di più la convinzione, o meglio la consapevolezza, che la vera sicurezza può derivare soltanto dalla crescita della comunicazione sociale e della fiducia collettiva, e non dall’esclusione e dalla marginalizzazione dei ‘diversi’ e degli ‘altri’, dalla difesa armata dei cancelli e dei muri, dalla sottolineatura delle differenze –di cultura, di religione, di etnia– e alla conseguente individuazione dei ‘nemici’ assoluti.
Il nostro Paese –a fronte anche della sua storia millenaria basata su una cultura dell’integrazione e dell’accoglienza– deve finalmente prendere atto degli enormi cambiamenti che si sono verificati a livello geopolitico mondiale e sottrarsi a quella logica del “conflitto permanente” che in buona parte è la semplice applicazione delle teorie keynesiane all’economia militarista.
Non va infine trascurato –come sottolineato dai vari comitati che si battono per la riconversione a usi civili degli insediamenti militari- l’aspetto della difficile coabitazione di quest’ultimi con le comunità locali, che si vedono ingiustamente espropriate di ampie e bellissime zone, che vivono nella preoccupazione delle conseguenze ambientali e sanitarie delle attività militari (responsabili di diversi tipi di inquinamento: dell’aria, dell’acqua e del suolo) e che temono la presenza di armi nucleari a pochi metri dalle proprie abitazioni.
Con questa proposta di legge si vuole semplicemente chiedere di dare la possibilità ai cittadini di esprimere la propria opinione sull’opportunità di mantenere –peraltro a costi elevatissimi per l’intera collettività– la presenza sul territorio italiano di dispositivi nucleari che comportano, per tipologia e caratteristiche intrinseche, un elevato rischio per la popolazione, sia sotto il profilo ambientale che sotto il profilo sanitario, nonché sull’opportunità di una progressiva chiusura dei poligoni militari di tiro e sulla ipotesi di non rinnovare l’adesione al trattato Nord Atlantico (Nato).

TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1
1. Il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, indice un referendum entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, avente per oggetto il quesito indicato nell’articolo 2.
2. Hanno diritto di voto tutti i cittadini che, alla data di svolgimento del referendum, abbiano compiuto il diciottesimo anno di età e che siano iscritti nelle liste elettorali del comune, a termini delle disposizioni contenute nel testo unico approvato con D.P.R. 20 marzo 1967, numero 223, e successive modificazioni e integrazioni.

Articolo 2
1. I quesiti da sottoporre al referendum sono i seguenti:
a) Quesito n. 1: «Ritenete voi che l’Italia debba procedere all’immediato smantellamento di tutte le armi nucleari presenti, a qualunque titolo, sul territorio italiano»;
b) Quesito n. 2: «Ritenete voi che l’Italia debba revocare ogni autorizzazione concessa a seguito di accordi internazionali e proibire l’ingresso nel territorio nazionale, ivi comprese le acque territoriali, di armi nucleari nonché di mezzi di trasporto a propulsione nucleare»;
c) Quesito n. 3: «Ritenete voi che l’Italia debba avviare un piano per la progressiva chiusura dei poligoni di tiro a uso militare, dando la priorità alle strutture che comportano maggiori pericoli e disagi per la popolazione circostante»;
d) Quesito n. 4: «Ritenete voi che l’Italia debba valutare l’opportunità di non rinnovare l’adesione al Trattato Nord Atlantico, ratificato con la legge 30 novembre 1955, n. 1335, in ottemperanza al ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 del dettato costituzionale?».

Articolo 3
1. La propaganda relativa allo svolgimento del referendum previsto dalla presente legge costituzionale è disciplinata dalle disposizioni contenute nelle leggi 4 aprile 1956, n. 212, 24 aprile 1975, n. 130, nell’articolo 52 della legge 25 maggio 1970, n. 352, nonché nella legge 22 febbraio 2000, n. 28.
2. Le facoltà riconosciute dalle disposizioni vigenti ai partiti o gruppi politici rappresentati in Parlamento e ai comitati promotori di referendum sono estese anche agli enti e alle associazioni aventi rilevanza nazionale o che comunque operino in almeno due regioni e che abbiano interesse positivo o negativo verso la formazione dell’unità europea e il sostegno e la promozione dell’Europa comunitaria. Tali enti e associazioni sono individuati, a richiesta dei medesimi, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto con il Ministro dell’interno, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale.
3. La commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi formula gli indirizzi atti a garantire ai partiti, enti e associazioni di cui al comma 2 la partecipazione alle trasmissioni radiotelevisive dedicate alla illustrazione del quesito referendario, entro i termini stabiliti per l’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo.

Articolo 4
1. Il Governo, sulla base del risultato della consultazione referendaria, avvia le azioni necessarie all’adeguamento della legislazione alla volontà popolare.

Articolo 5
1. La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno seguente a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla sua promulgazione.