Il mio telefono ha la febbre. Squilla in continuazione. A dicembre non ha mai smesso di squillare.
Periodo di regali e baldorie, di finti abbracci e cenoni. Ho ricevuto auguri addobbati, cartoline prestampate, denti allargati in sorrisi sintetici.
Il telefono ha la febbre. Vorrei non rispondere più, ma devo. Tra la melassa natalizia può nascondersi anche qualche telefonata importante. Qualche telefonata del cuore.
Dicembre è stato un mese difficile per me e per tutti i somali. Per me perché ho perso un fratello adorato per un tumore. Per tutti noi somali perché abbiamo perso le ultime speranze di pace. Il mondo, infatti, ci ha gettati in un precipizio di violenza che speravamo fino all’ultimo di evitare.
Non credevo che ci fosse qualcosa di peggio della guerra civile che ha dilaniato la Somalia per sedici anni, invece mi sono dovuta ricredere, il peggio riserva sempre sorprese inaspettate.
Qualcuno mi ha chiesto: Per chi tifi? Parteggi per le corti islamiche o per il governo di transizione? Mi faccio ripetere la domanda. Non la capisco. La gente pensa alla Roma e alla Lazio. A Totti e Oddo. Tutto ridotto a una metafora calcistica. Ma non ci sono sciarpe e caroselli stradali a Mogadiscio. In mezzo a questo delirio c’è solo la povera gente. C’è stata una alluvione che ha devastato il paese settimane fa, ora c’è la carestia, molti si stanno ammalando di malaria. E domani? Domani non oso pensare cosa potrà esserci.
Vado a un call center. Chiamo la Somalia, mia cugina Halima. Lei è una veterana ormai, quando è scoppiata la guerra civile nel 1991 c’era. Non racconta balle lei. Miracolosamente la linea funziona. Il black out, l’assenza di notizie arriverà, per ora sentire la voce dall’altro capo del filo mi rasserena. La voce di Halima è potente. Però noto una incrinatura che non mi piace.
«Abbiamo paura – dice – ci stanno bombardando. Hanno colpito gli aeroporti. Quando arriveranno qui (gli etiopi, ndr) ci massacreranno». Non ha nessun dubbio Halima su come finirà la faccenda. Bagno di sangue, stupri, vendette sommarie, torture. Il solito copione.
La vita al tempo delle Corti islamiche
Solo che per qualche mese si è respirato a Mogadiscio. Le corti non sono forse il migliore dei mondi possibili, lo riconosco. Hanno posizioni ambigue su temi fondamentali come i diritti dell’uomo e soprattutto della donna. Però il popolo stanco si è affidato alle sue cure. Un mio cugino alla lontana mi spiega che «almeno questi ti lasciano vivere».
In questi mesi di controllo islamista la gente ha potuto lavorare, i ragazzi sono tornati a studiare, le donne a circolare per strada senza la paura di essere stuprate e gettate come stracci vecchi. Il popolo somalo stanco ha pensato che questo potesse essere il paradiso. Non lo è, lo sappiamo. Ma la soluzione quale può essere?
Il dialogo penso. Mi dicono dalla cabina di regia che la risposta è errata.
L’Etiopia e il sedicente governo di transizione somalo (appoggiati tacitamente dalla Comunità Internazionale, Stati Uniti in testa) hanno invece pensato che fosse una bella trovata disseminare il paese di cluster bombs, che uccideranno i bambini somali per i prossimi cento anni. L’invasione etiope riceve plausi internazionali, Meles Zenawi viene considerato una povera vittima del complotto islamista ordito da una grotta del nowhere dal solito Osama Bin Laden.
Il telefono squilla ancora. È una mia amica etiope di Bologna. «Mi dispiace» dice. È triste la mia amica. Mi spiega che il popolo etiope non vuole la guerra, la vuole Zenawi. Quell’uomo in verità la vera guerra la sta facendo ai suoi, vuole spezzare la resistenza interna, qualsiasi voce di opposizione. La Somalia è una buona scusa per distrarre il popolo dai suoi diritti. E non importa se per tenersi il potere Zenawi non esiti a destabilizzare l’intero Corno d’Africa.
La mia amica etiope è preoccupata. Io più di lei. Le truppe sono vicine a Mogadiscio. Penso alle mie zie, agli infiniti cugini. Non posso fare nulla per loro. Halima mi ha detto: «Che il cielo non voglia, ma se scappiamo lasceremo le zie al loro destino». Le zie sono malate, trasportarle è impossibile, rallenterebbero il gruppo. Gli anziani si sacrificano per i più giovani. Mi passa la zia Faduma al telefono. Riconosco il suo vocione. Fa confusione, mi scambia per un’altra nipote. Però è allegra. «Se gli etiopi verranno gli farò vedere i sorci verdi». È vecchia mia zia, molto. Ha una gamba fuori uso. Se gli etiopi verranno la useranno come pallina da baseball. Dio non voglia, ma la preferisco morta, piuttosto che uccisa in malo modo. Ecco questi sono i miei brutti pensieri di questo lurido Natale 2006.
Le responsabilità coloniali dell’Italia
Gli islamisti stano facendo appelli alla jihad, il governo di transizione invece parla di sovranità e democrazia. Entrambi sono colpevoli di aver gettato il paese in questo caos. I giornali del mondo globalizzato etichettano la guerra come «conflitto locale». Peccato che gli armamenti non siano «locali». Tutti hanno armato tutti. Paesi arabi assortiti, potentati locali africani, Stati Uniti d’America, Eritrea. Molte armi sono di fabbricazione italiana.
A proposito l’Italia che fa? So solo che Prodi ha commentato «è triste» poi si è sentito con Gheddafi sulla crisi somala. È preoccupato il professore. Preoccupato per i sicuri profughi del Corno che sbarcheranno a Lampedusa. Preoccupato per le ire funeste dei razzisti nostrani. Ma l’Italia lo sa che non è esente da colpe su questo conflitto? Somalia, Etiopia, Eritrea. Tre ex colonie. Tre paesi che dalla fine del Secondo conflitto mondiale a oggi litigano su confini incerti che l’Italia ha creato. Litigano perché l’Italia le ha messe l’una contro l’altra. Per la guerra d’Etiopia del 1936 Mussolini e i suoi fedeli scagnozzi hanno usato dubat somali e ascari eritrei contro Hailé Selassiè. E prima ancora erano stati usati etiopi contro i libici.
Divide et impera. Dividi e sfrutta. Pensiero coloniale che temo non sia mai caduto in disuso. Oggi soffriamo anche per queste ferite antiche, ferite mai rimarginate. Su Internet intanto i somali hanno riesumato i canti anti-etiopi del conflitto Menghistu-Barre annata ’77. L’odio sta mettendo salde radici.
Strano destino quello della Somalia. Dalle stelle ai bassifondi. Maha Thray Sithu U Thant, diplomatico birmano, terzo segretario delle Nazioni Unite diceva negli anni sessanta che «la Somalia è il figlio prediletto delle Nazioni Unite». Eravamo un esempio. In realtà la cancrena ci aveva già colpito, aveva colpito già tutto il Corno d’Africa da tempo. Oggi sono proprio le Nazioni Unite a voltarci le spalle. Prima di chiudere la telefonata con Halima le dico «auguri» fra un po’ di giorni è festa per gli islamici. Aggiungo «che Dio possa donarci la pace». Lei dice «Amin» poi aggiunge: «Nemmeno Siad Barre ci avrebbe venduto agli etiopi. Come è potuto accadere?».
Chiudo. Non ho più risposte.
Mi collego a Internet. Vado sul sito di Amin Amir, il Vauro somalo. Le ultime vignette sono sulla guerra. In una c’è la bandiera somala, azzurra con una stella bianca a cinque punte al centro. Qualcuno pugnala la stella. La stella sanguina. Il sangue esce a fiotti dallo schermo del computer. Penso che Amin sia un genio. Il sangue sta uscendo a fiotti dai corpi di tutti i somali. Soprattutto dei civili. Lo so il nuovo linguaggio politico preferisce chiamarli danni collaterali, ma sono all’antica abbiate pazienza, per me sono ancora civili.